venerdì, dicembre 03, 2010

Lo sciamano di Briggio

Anche Briggio come alquanto altri barrios valligiani possdeva il proprio sciamano, colui che era incaricato di tramandare le gesta ella stirpe e la continuitá delle tradizioni e della parlata. Lo sciamano del barrio di Briggio aveva un nom benedetto, dorato: era infatti chiamato Abbondio, Abbondio Agatupolo e tutti nelle stradine strette e scivolose, cui l’umiditá quasi perenne conferiva odore di muffa, muschio e bollitura di cavol con mosto solevano designarlo con rispetto, o a volte con mal disimulata stizza Mastro Abbondio. Di origine forse levantina giunse nel barrio come calafato e fattosi ginnasiarca si elevó poco a poco con le sole sue forze fino alla prestigiosa carica di sciamano che nessuno per lunghissimi anni pensó mai di contendergli. No, mai fu sfidato Mastro Abbondio. Di modesta statura e carnagione scura aveva la fronte scolpita da tre profonde rughe che si accentuavano quando assumeva il fiero cipiglio con cui era solito presentarsi in pubblico nelle occasioni ufficiali e nelle festivitá e proprio nel centro delle tre rughe come un punto di intersezione un pronunciata prominenza callosa, come una specie di piccolo corno.
Si fissó nella memoria del giovin Dreiser Cazzaniga, tale prominenza, come marchio del sapere e della cultura a tal segno che quando giá era uno studioso, onesto adolescente non poteva figurarsi Cicerone, Patone o Aristotele stesso senza una pronuncatissima protuberanza frontale come unicorni, insomma del Parnaso. Voce aveva roca e carnosa per lo smodato uso di nicotina che ingiallivagli altresí le falangi dell’indice e del medio della mano destra. Gran parte della sua vita era dedicata alla stesura di una monumentale “Historia Barrii Briggi” grazie a una cospicua documentazione messagli a disposizione dal fratello, persona grigia e da tutti ignorata nonostante i somigliassero come due gocce d’acqua, forse proprio pe l’assenza del corno di Mastro Abbondio. Della sua maggiore fatica soleva egli dare pubbliche letture in molto contate occasioni, sfogliava allora davanti agli attoniti briggesi immensi fasci di scartafacci, borbottando con voce roca che si confondeva nel fruscio pergamenaceo senza mai iincontrare quelloche cercava. Queste letture non erano lette perché non trovava mai quello che aveva intenzione di leggere. Alla sua morte non fu possibile trovare traccia dell’opera sua maggiore, nemmeno poche righe che si potessero ad essa attibuire. Tra colpi di tosse e arzigogoli delle mani egli riusciva, tuttavia di comunicare ai briggesi la tesi principale che aveva scoperto e dimostrato. I briggesi erano originari di Trebisonda, in Asia Minore ed erano giunti nell’umido barriio chiamati da un rdine monastico del luogo per la loro perizia artigianale nella produione di oggetti sferici, biglie, perle, pelote e palle. Adduceva come prova di questa teoria il fatto che nella parlata briggesi si trovassero elementi celtici. Il fatto che a Trebisonda non vi fossero celti e che anzi un proverbio di Cappadocia citato da Bessarone suonasse: “Raro come un celta in Trebisonda” non turbava i briggesi che non sapevano chi fosse Bessarione e non avevano mai udito parlare di Cappadocia. L’ordine monastico poi aveva la sua sede in Marsiglia ed era stato fondato molti secoli dopo l’esodo preteso dei briggesi da Trebisonda secondo lo stesso mastro Abbondio; neppure questa contraddizione aveva peró il potere di scuotere la ferma fede che gli abitanti del barrio riponevano nel loro sciamano, vuoi percé non la notavano, vuoi perché il fatto di potersi fregiare di tale esotica provenienza gli faceva sentire superiori agl altri villani che appartenevano al luogo dove erano spuntati come funghi dall’umido sottobosco.
Soleva Mastro Abondio abbellire il suo discorso con citazioni in antiche, illustri lingue straniere e soprattutto in castigliano. Grande e amara fu la sopresa del giovin Dreiser Cazzaniga quando, avendo appreso egli il castigliano, dovette rendersi conto del fatto che le citazioni di Mastro Abbondio non solo non erano in castigliano ma in uno scorretto gagliego, ma che nemmeno il loro significao coincideva con quello che Mastro Abbodio gli attribuiva. La figura dello Sciamano cadde fragorosamente nella mente di Dreiser Cazzaniga laciando il suolo cosparso di cocci taglienti. Per lunghi anni Dreiser Cazzaniga irrise e rabbiosamente denigró Mastro Abbondio e l’opera sua e solo dopo che vari lustri accumularono sulle sua spalle dolore e delusioni comprese che Matro Abbondio aveva svolto nel Barrio una nobile e amara funzione, non per le sue conoscenze e per la sua cultura, ché non possedeva né le une né l’altra, ma per aver saputo scolpire nelle anime dei giovani briggesi il rispetto per il sapere e l’amore per la propria terra e la propria stirpe facendo in modo che si sentissero parte di una vicenda che superava le loro vite individuali e affondava nei secoli, che si sentissero un popolo, pochi anni prima che la televisione finisse pre traformarli definitivamente in una plebe stracciona dipendente dall’annona.

venerdì, novembre 19, 2010

Per i tre grandi maestri del realismo drammatico del XVII secolo, Caravaggio, Rembrandt e Bernini, lo spechio è un'utensile quasi altrettanto importante del pennello, o lo scalpello. L'obiettivo consisteva nello scongelare l'espressione della passione, liberandola dalle restrizioni imposte dai modelli classici; nel dotare della maggiore autenticitá possibile la mobilitá naturale del volto e i gesti del corpo. E mentre si convertivano nei loro propri modelli per portare a compimento questo processo di animazione, scoprirono l'intensitá della propria identificazione con la storia che raccontavano. Autoritraendosi, gli artisti si trasformavano in attori e pubblico contemporaneamente, i produttori e consumatori della propria rappresentazione.
Simon Schama
Il potere dell'arte
Bernini

Memorie di Dreiser Cazzaniga

Posted by Picasa

Memorie di Dreiser Cazzaniga

L'Africa di Dreiser Cazzaniga

Come avvenne che Dreiser Cazzaniga nel pieno della sua amara goventú finisse nel Cuore Tenebroso del'Africa Equatoriale? Neppure lui riuscí mai a chiarirselo bene. Per imitare Rambaldo? Per idealismo? Per paura? Per desiderio di avventtura? La sola cosa che Dreiser Cazzaniga mostró sempre di sapere con sicurezza fu che la decisione sciagurata la prese durante un'escursione con Beaumont in un mattino fragrante tra l'abetaia e il mare dell'adolescenza mentre presentiva la discesa del Dio ladro e medico di cui a quei tempi adorava le tracce lievi sui prati e l'arena: Hermes.
Poi la decisione la mantenne. L'Africa di Dreiser Cazzaniga fu una discesa iniziatica nelle viscere della sua pretenziosa ingenuitá. Lui, a volte la chiamava proprio stupiditá. Dreiser Cazzaniga era stato programmato per essere un perdente (lo abbiamo giá visto).
Il viaggio comincio nei Paesi bassi cattolici, Dreiser Cazzaniga ricorda di come fu portato quasi di peso dall'entusiasmo degli amici fino al'aereo. Era il primo aereo dela sua vita e non capí niente di quello che doveva fare per imbarcarsi. Se lo trovó fatto, lo fece, insomma senza poi potersi ricordare quello che aveva fatto. Poi fu una locanda aeroportuale piena di ubriachi calvi provenienti dalla poderosa isola di Albione che vomitavano e pisciavano per i corridoi e sugli ascensori. Piú morto che vivo, in una mattina di riflessi di cromo raggiunse il velivolo che doveva portarlo in Camerun. Del volo non ricordó mai pú nulla salvo lo scalo a Kano per problemi di stabilitá dovuti all'infuriare del vento Rosso, l'Harmattan. Restarono ore nell'aereoport che doveva essere rovente avvolti in una fiammegiante nebbia di sabbia rossa. Il suo casuale compagno di viaggio era un bulgaro che gli spiegava in una specie di inglese (Dreiser no capiva l'inglese) come per vincere la paura dell'Africa la cosa migliore fosse l'acquavite di ginepro di cui aveva una bottiglia in ogni tasca della sahariana. (Dreiser Cazzaniga anche se non capiva l'inglese capiva perfettamente quello che il bulgaro voleva dirgli in quello che egli credeva fosse inglese). Poi l'aereo decolló e dopo una serie infinita di vuoti d'aria finalmente atterró a Douala. Una nube di calore insopportabile e umido come quello del calderone di una antica tintoria colpí e avvolse il poverso Dreiser Cazzaniga mettendo al tappeto quel poco che restava del suo buon senso giá screpolato da ore e ore di ansia intervallate da raffiche di paura. Nel mezzo di una folla frenetica egli cominció a distribuire scellini, franchi, corone, talleri a qualsiasi sbirraccio gli si avvicinasse con fare minaccioso e si ritrovó senza bagaglio in una cella di fango secco dal suolo di fango pisciato in mezzo a topi e escrementi e altri insetti in qualche luogo attorno all'aeroporto di Douala. Dopo un tempo che non seppe mai calcolare nel ricordo la porta si aprí e un uomo entró gridando: “Dreiser! Dreiser!” Distribuendo pacche sulla spalle a tutti gli sbirracci e sorrisi e sigarette, fece cenn a Dreiser Cazzaniga di seguirlo. Dreiser Cazzaniga lo seguí. Era un gigante canuto dalla dentatura gialla e nera, portava una camicia che la settimana precedente aveva dovuto essere bianca, e una collana di denti di varie fiere anch'essi gialli e neri in mezzo ad altri feticci pelosi, stivali messicani, la fondina di una pistola in cui teneva le chiavi della macchina e il guinzaglio di uno dei suoi cani. Dreiser Cazzaniga entró nella sua macchina come si entra in un frigorifero, la barba gli si ricoprì si brina. Avrebbe trascorso i primi venti giorni in Africa tormentato da una violenta bronchite. L'interno della macchina era pieno di denti, conchiglie e feticci pelosi che pendevano sporchi da ogni gancio disponibile. Sui sedili giacevano abbandonati porno di Taiwan e film di Kungfu di Hongkong. Dreiser Cazzaniga si abbandonó alla spossatezza che precede la morte bianca mentre il veicolo si apriva il passo in un delirio di claxon e di mani tese che il Señor Zocco si affrettava a colmare di banconote stropicciate. La casa di Don Zocco era circondata da altissimi muri, cani rabbiosi, servi servili, siepi spinose. Dreiser Cazzaniga en varc'il cancello con il rombo rovente della febbre nelle tempie. Un servo in mutande trateneva a stento un cane dai denti coperti di una leggera bava rosa, Dreiser Cazzaniga non aveva piú forza per avere paura. La sua stanza gli fu mostrata e Don Zanco lo invitó a trascorrere la serata, se avesse voluto con i suoi invitati in piscina. Dreiser Cazzaniga declinó l'invito, ovviamente, Un motore di Boeing ronzava senza sosta nella sua testa, lo assordava lo spingeva a fumare una sigaretta dopo l'altra.
Solo. Cercava di dormire. Il motore non si spegneva, la notte era come un'immensa spugna caldissima e profumata, che ottundeva i sensi e lasciava solo il sussulto di sporadici palpiti di paura. Dreiser Cazzaniga cercó un po' di fresco guardando fuori dalla finestra. a finestra dava sulla piscina, nella piscina Don Zanco e i suoi amici saltavano tra gli spruzzi circondati da una decina di schiamazanti ragazzine nude. Sembravano trainati dalle punte dei loro sessi turgidi sui forti corpi spossati dal gin. Dreiser Cazzaniga rinunció a scendere in piscina, si rassegnó al motore del Boeing, si lasció cadere sul letto e cadde in un doloroso sopore. Poi il motore si spense, Dreiser Cazzaniga precipitó con terrore nel nulla del suo silenzio interno. Si riseveglió gridando nel silenzio azzurro della sua prima mattina africana, nell'illusione tanto dolce che i grandi alberi che incorniciavano il paesaggio che si vedeva dalla finestra fossero scaturiti di colpo dalla terra proprio nel corso di quella sola notte.

Memorie d Dreiser Cazzaniga




Il Barrio di Briggio ove Dreiser Cazzaniga trascorse la prima gioventù.
Posted by Picasa

Il folle melograno

Posted by Picasa

Il folle Melograno

In questi cortili bianchissimi dove spira il vento del sud
Sibilando per le stanze dalle ampie volte, ditemi: è il folle melograno
Che saltella nella luce spargendo la sua risata fruttuosa
Con ostinazioni e sussurri di vento? Diteni, è il folle melograno
Che freme in foglioline novelle con l'alba
Illuminando tutti i colori con un brivido di trionfo?

Quando nei campi ove si risvegliano nude le fanciulle
Mietono con bionde mani il trifoglio,
Percorrono i confini dei loro sogni, ditemi, è il folle melograno
Che insospettabilmente colloca nei suoi freddi panieri le luci
Con nomi traboccanti di gorgheggi? Ditemi,
È il folle melograno che combatte il coperchio di nuvole del mondo?

Il giorno che la gelosia adorna con sette tipi di piume
Abbbraciando l'eterno sole con migliaa di prismi
Accecanti, ditemi, è il folle melograno
Che afferra una criniera con cento frustate nella sua corsa
Mai afflitto mai brontolone? Ditemi, è il fole melograno
Che proclama a gran voce lo spuntare della nuova speranza?

Ditemi è il folle melograno che saluta da lontano
Agitando un fazzoletto di foglie di fuoco fresco
Un mare che sta per pertorire mille e una barca
Che onde che vano e vengono mille e una volta
Su spiagge inodore? Ditemi, è il folle meolgrano
Che fa scricchiolare le alte brigli nella trasparenza dell'etere?

In alto con grappolo glauco che s'incendia di festa
Arrogante, avventato, ditemi, è il folle melograno
Che fa scoppiare in luce nel bel mezzo del mondo i temporali del demonio?
Che estende da parte a parte la nuca di zafferano del giorno
Intrecciato con sparto? Ditemi, è il folle melograno
Che sbottona in fretta e furia la seta del giorno?

Sottoveste per il primo d'aprile e cicale a ferragosto
Ditemi, quegli che gioca, che infuria, che confonde,
Agitando come minacce le sue cattive ombre nere
Versando in grembo al sole uccelli inebrianti
Ditemi, colui che mette ali aperte al petto delle cose
Al petto dei nostri sogni piú profondi, è il folle melograno?

Odysseas Elytis
Orientamenti
Trad genseki

giovedì, novembre 18, 2010

Poesia dell'addio

Il sole sbriciola la sabbia bianca del cortile
Le palme agitano la criniera come un grido
È bene che tu beva il vino del disprezzo
Prima dell'addio
Non troverai un altro amico
Quando giungerai
Alle porte di Hûrqalya.

genseki
Posted by Picasa

Memorie di Dreiser Cazzaniga

Dreiser Cazzaniga e il macinino

Fin dalla piú tenera infanzia Dreiser Cazzaniga ebbe una percezione chiara di quelo che fosse l'immortalitá. Lui l'immortalitá la percepiva nelle cose, negli oggetti piú semplici che andava scoprendo in casa della Nonna Violante detta la Dama Azul. La casa della Dama Azul aveva due colori bellissimi, l'arancione della cucina e l'azzurro della stanzza da letto. Tutti i mobili dela cucina erano dipinti di un arancione solare e le gambe delle sedie e dei tavoli erano arancioni, il sole che entrava come a fiotti dalla finestra incorniciata di gerani esaltava il canto luminoso del colore, lo faceva esplodere negli occhi. La dama Azul, come era allora costume delle vecchie signore del Barrio aveva i capelli azzurri, e l'azzurro era l'altro colore della case, il colore che dominava nella stanza da letto freschissima in cui Dreiser Cazzaniga dormiva, leggeva e sognava. Dal soffitto pendeva una curiosa lampada che emanava una pallidissima luce azzurra che a Dreiser Cazzaniga faceva pensare alla morte. Non è che lui sapesse che cosa fosse la morte e che cosa avesse a che fare con quella fievole luce azzurra in cui ad osservala bene parevano predominare i toni verdi, un sottile verde cobalto, tuttavia le due immagini, la lucina e la morte era incatenate una all'altra. Molti anni dopo, la lucina azzurra avrebbe iluminato due grossi piedi pallidi e sporchi che spuntavano da una coperta troppo corta su di un letto troppo corto. Cosí sorgeva la morte agli occhi di Dreiser Cazzaniga, Gli oggetti della cucina immersi nela loro atmosfera di agrumi, invece, erano assolutamente immortali: erano immortali i piselli che egli aiutava a sgusciare traendol dal sacchetto di spessa carta marroncina, erano immortali gli stofinacci bianchi con l'impronta di qualche bruciatura, era immortale il macinino del caffe, era tutto di legno e quando si apriva il cassettino emanava un odore profondo che stordiva di piacere, era immortale il mortaio per fare il pesto di marmo grigio con le sue venuzze azzurre come i capelli della nonna Dama, era la grande radio di legno con le sue due pesanti porte di legno e tutte le colonnine che separavano gli altoparlanti, il vaso del basilico alla finestra la grattugia del parmigiano e quella ancora piú temibile del pecorino sardo che la nonna Dama Azul, la Violante benedetta ripuliva con infinita pazienza, con la lama di un colello per estrarne anche la piú piccola briciola di formaggio. Tutta questa meraviglia avvolgeva gli oggetti della cucina che sorgevano dal sempre, dall'evidenza, davanti a Dreiser Cazzaniga che li percepiva come meravigliosi proprio perché nel momente in ciu gli apparivano gli apparivano come rivelandosi sullo sfondo di una preeseistenza, un sempre che era l'evidenza stessa della loro permenenza. Dreiser Cazzaniga, bambino rabbrividiva di gratitudine per l'esistenza del mondo e per la sua indubitabile eternitá.

L'eccentrico

L'eccentrico

Questa volta non avevo vie d'uscita
La cosa migliore era fare
Come tutti gli altri
La gente del villaggio non avrebbe capito
Nemmeno gli artisti della capitale,
D'altra parte, nessuno avrebbe capito
Lo sapevo bene.
Sarebbe stato beffardo, elegante,
Ma anche un tenero dono di speranza
Se non fossi stato sicuro che sarebbe passato inavvertito
Non restava piú nulla da esaminare,
Il tempo per la riflessione era trascorso.
Avevo stabilito il tempo e il luogo.
La veritá è che avevo già da qualche tempo
Deciso di cominciare ad invecchiare,
Per non dare troppo nell'occhio.
Qualche pelo bianco nella barba,
Passeggiare con il bastone, e tanti altri piccoli dettagli
Per rendere il tutto piú credibile.
Bastava già.
La decisione l'avevo presa. Sarei morto come tutti gli altri
Non avevo ancora deciso di che
Ma sarei morto, che diamine.
Proprio come mio nonne, il tempo dell'immortalitá
Non era ancora maturo, la societá non era pronta
Tutti erano tanto abiuati a morire
Tutti erano troppo abituati a morire,
Ci sarebbero volute generazioni per cambiare questa abitudine,
Questo costume tanto radicato
Se non fossi morto avrebbero
Finito per ammazzarmi
Sarei morto allora, da solo. Dovevo cercarmi un assasino
Su Facebucco o goggole.
O un'assasina che mi istillase goccia a goccia
Un veleno tiepido
Un estratto di anime marcite e peli madidi
Sarebbe stato un po' come fare l'amore.
Dovevo ricordarmi di controllare i trigliceridi
Chi rinuncerebbe a morire sano,
Senza cirrosi o colesterolo?
Prima di morire dovevo smettere di fumare
Fare lunghe passeggiate e rinunciare alla pancetta fritta
Sarei morto senza cancro perbacco
Ma sarei morto, Lo avevo deciso.
Non avevo altra scelta.

*

genseki

Memorie di Dreiser Cazzaniga

La Gaviota di Solentiname

Gli amici di Dreiser Cazzaniga vivenano una doppia vita. Proprio tutti. Una era, appunto la loro vita. L'altra, meschina davvero, era quella che menavano nella scatola cranica di Dreiser Cazzaniga, sottomessi ai suoi bizzarri e cangianti paesaggi interiori. Condannati a lunghe e ripetitive conversazioni. A dire il vero questo destino Dreiser Cazzaniga non lo riservava solo agli amici, ma a parenti, amanti, nemici. Tutti condannati ad avere un doppio nella sua testa e a non poter saperlo.
Il piú condannato di tutti, comunque, era Dreiser Cazzaniga stesso. Egli non poteva, invero, godere, che so io, di una gita per le sierre autunnali che incoronavano dei loro fiammeggianti boschi e dei loro pascoli diamantini il barrio povero e infreddolito, senza dover convocare proprio a quella escursione uno dei suoi amici diletti. Si, certo uno dei tanti tenerissimi compagni che dovevano tradirlo, tutti o per l'abbraccio della Señora de las Aguas Verdes, o per un'avventura in compagnia di Jesús il Verde, una di quelle avventure che non hanno mai ritorno, o semplicemente pugnalarlo alle spalle con un pugnale intinto nel veleno, cosí, solo per vederlo contorcersi dal dolore.
Cosí Dreiser Cazzaniga peccatore cieco e meschinello abbandonato dalla Grazia era condannato a vivere qualsiasi esperienza estetica, amorosa, politica, o sportiva, soltando condividendola con questi doppi ignari. Erano i suoi prigionieri. Erano velieri in bottiglia. La sua mente era la bottiglia. Imprigionandoli, peró Dreiser Cazzaniga finiva per imprigionare soprattutto se stesso. Come vivere con una Dama Bunducchia nella testa che vi va sbavando tutto il parquet dell'anima con la sua bava di alcolista mentre voi le sputate addosso tutto il vostro furioso, inutile disprezo,? Come contemplare un dipinto di Paolo Veronese discutendone tutti i particolari con lo zio Cardinale, quasi catatonico e dallo sguardo a tratti misteriosamente indulgente, mentre gli si dimostrava con logica impeccabile quanto spregevole e straccione fosse il Profeta di Nazareth, per vederlo ridere soddisfatto, guardandosi le unghie pallide sulla veste rossissima macchiata di ragú? Era piú terribile essere la bottiglia che il veliero o il piccione che vi era restato imprigionato. Dreiser Cazzaniga viveva solo se poteva porre tra se e la vita la conversazione immaginale con un doppio. Uno strazio. Penitenza e preghiera avrebbero forse potuto salvarlo Ma questo non avvenne. La bottiglia si ruppe da sola. O meglio fu il doppio di una certa dolcissima bianca gabianella che semplicemente ruppe la bottiglia col piccolo becco crudele aduso a sventrare i piccioni e Dreiser Cazzaniga la vide volare via nel cielo immenso che era anche esso nella sua mente, intendendo cosí che la sua mente non era una bottiglia ma un universo. Rotta la bottiglia tutti furono liberi, felloni e leali, vivi e morti, tutti i doppi ritrovarono la loro libertá e Dreiser Cazzaniga ritrovó il silenzio, la Rosa Blanca, il perdono e respiró finalmente la bellezza del mondo e dell'essere mortali. Dolce Gabbianella. Forse ella fu, o meglio il suo doppio fu, un inconsapevole strumento della Vergine Pastora. Dreiser Cazzaniga amó la di lei libera rotta, la carena, la vena e il palpito per tutta la sua pigra vecchiezza.

Alejandra Pizarnik - Extracción de la piedra de la locura

Alejandra Pizarnik


Alejandra Pizarnik

Ceneri

Abbiamo detto parole
Parole adatte a risvegliare i morti
Parole per accendere un fuoco
Parole in cui poter sedersi
E sorridere.

Abbiamo creato il sermone
Dell'uccello e del mare,
Il sermone dell'acqua,
Il sermone dell'amore.

Ci siamo messi in ginocchio
E adorato lunghe frasi
Come sospiro di stella,
Come onde,
Come ali.

Abbiamo inventato nuovi nomi
Per il vino e per la risata,
Per gli sguardi e i loro terribili
Sentieri.

Ora sono sola
Come l'avara che delira
Su una montagna d'oro -
Scagliando parole verso il cielo,
Sono sola
Senza poter dire a chi amo
Quelle parole per cui vivo.

Da “Aventuras perdidas”

Trad, genseki

Slavoj Zizek

Il Sogno e la rivoluzione

In una rivoluzione davvero radicale il popolo non solo realizza il proprio sogno di emancipazione; quanto piuttosto reinventa completamente il suo modo di sognare.

Zizek

Heiner Müller


Messia

Un annuncio soleva risuonare. Il treno arriverá alle 18h15' e partirá alle 18h20' – il treno puntulamente non arrivava alle 18h15'. Si udiva, invece, un altro annuncio: il treno arriverá alle 20h10'. Questa era la situazione. Basicamente, uno stato di antipazione messianica. Era l'annncio costante dell'imminente arrivo del Messiah, e si sapeva perfettamente che il Messiah non sarebbe mai arrivato. E tutavia è così bello sentire anunciare la sua venuta ancora e poi di nuovo.

*
Heiner Müller
Trad. genseki

lunedì, novembre 08, 2010

Nana Mouskouri - Pauvre Rutebeuf

Povero Rutebeuf

Gli amici
Da Rutebeuf
trad genseki

De' miei amici cos'è avvenuto,
Quale destino avranno avuto?
Accanto a me s'erano stretti
Per tanto tempo, i miei diletti.
Guardali ora sono dispersi
Qua e la sbattuti da venti avversi
Erano amici che porta il vento
E c'era vento alla mia porta
Una ventata li portó via!
L'amore è morto.

Nella stagion ch'ogni albero si spoglia
Quando sui rami non resta foglia
Ma vanno a terra
Nel freddo inverno
La povertà ratto m'atterra
Da tutti i lati per me v'è guerra
L'amore è morto

Non voglio dire in qual maniera
Sono caduto in tale inferno
Con tanta onta
Per quale onda son naufragato.

De' miei amici cos'è avvenuto,
Quale destino avranno avuto?
Accanto a me s'erano stretti
Per tanto tempo, i miei diletti.
Guardali ora sono dispersi,
Qua e là sbattuti da venti avversi;
Erano amici che porta il vento
E c'era vento alla mia porta:
Una ventata li portó via!
L'amore è morto.

Male non v`è che venga solo
A me toccava si amaro duolo
E peggior torto!

Povero senno e povera memoria
Dio mi concesse, il re di gloria,
Povera borsa!
E sul mio culo quando c'è vento
La tramontana ratta s'avventa
Vento a me viene, vento non svento
L'amore è morto

Erano amici che porta il vento
E c'era vento alla mia porta:
Una ventata li portó via!

Pauvre Rutebeuf Léo Ferré

Virgilio

Dall'Egloga I

Perché non resti a dormire da me stasera?
Ho un letto di frasche che ho appena tagliato
Nel bosco
E per colazione ci sonole castagne,
Quelle belle tenere e le mele le la toma di capra.
E poi, lo vedi? I camini fumano giá in paese
E l'ombra dei molti piú alti, guarda come cresce
Nella valle!

trad genseki

José Hierro

Beethoven davanti alla televisione

Tedesco, di Bonn, identificava
Tutti i suoni della natura:
Quello del mae, quello del fiume, quello del vento e la pioggia,
Il canto dell'usignolo, quello dell'upupa e del cuculo.
Un giorno un uccello cantó de egli non udiva il suo canto:
Fu il primo segnle di allarme.
Poi, implacabile, a poco a poco, la sorditá crebbe
Finché la notte sonora lo avvolse.
Da allora compose con il suono che solo immaginava.
Non poté mai ascoltare la sua Messa in Re,
I suoi ultime quartetti, la sua ultima sinfonia.

Ludovico Van Beethoven morí nel milleotocentoventisette
(è quello che pensano i disinformati),
Io, tuttavia lo vidi al Lincoln Center.
Fu negli anni novanta. Sedevamo in poltrone contigue.
Scrissi sul mio programma:
“Concerto eccelente”. Assentí:
“Non si prenda il disturbo di scrivere, ci sento perfettamente”.

Poi, nell'intervallo, parlammo della sua musica,
(Forse si rese conto
Che lo avevo appena riconosciuto.)
Avvisarono che era il momento di tornare in sala
Per ascoltare la Nona.
Van Beethoven si voltó e fece per andarsene.
“Perché proprio ora?” Gli chiesi.
“Torni in albergo. Ascolteró la Nona
In televisione, c'è la diretta”, rispose.
“Permette che l'accompagni?”, dissi.
Si strinse nelle spalle.

Tutto finiva cosí
Seduti davanti al televisore.
Ascoltammo il galoppo della battuta
Sul leggío: Silenzio. Ruggí l'orchestra.
Allora Ludwig Van Beethoven
Si alzó e tolse l'audio.
Il silenzio era allora assoluto.

A volte canticchiava, alzava la mano
Per indicare l'entrata dei timpani
Nello scherzo. Pianse con l'adagio,
Si riprese entusiasta quando il coro cantava
Le parole di Schiller.

Io non udró mai, nessuno potrá
Udire ció ch'egli udiva.
Il concerto terminó. Egli si alzó di nuovo,
Si avvicinó al televisore.
Le camere inquadravano adesso
Il pubblico entusiasta.
Van Beethoven udiva, nel millenovecentonovanta,
Quegli applausi che non poteva udire a Vienna,
Nel milleottocentoventiquattro.

José Hierro
Trad genseki

giovedì, novembre 04, 2010

Pasolini, Jara, Hernandez

Adesso che sappiamo con certezza che il loro sacrificio è stato inutile, che la brutalitá delle loro morti è abisso di abiezione, posto che i loro popoli hanno dimostrato di non essere degni di loro, di non voler percorrere il cammino della dignitá da loro indicato, anzi di volerlo piuttosto ostruire con la spazzatura dei loro consumi infantili, adesso ancora piú grande è l'affetto che vogliamo offrire alle loro ombre senza pace, quando i nostri occhi ancora una volta vedono seccarssi anche le lacrime della speranza e tutto è corruzione, intorno a noi, corruzione dei ricchi come dei poveri, prepotenza dei forti e ahimé anche dei deboli e persino l'odio è inaridito dall'aviditá, dall'usura che siede trionfante alle fonti della vita.

genseki

In memoria di Pier Paolo Pasolini, Victor Jara e Miguel Hernandez

Axion Esti Anigo To Stoma Mou Odysseas Elytis Mikis Theodorakis Grigori...

Odysseas Elytis

Odysseas Elytis

Traduzioni di genseki

“Orientamenti”

Marina delle rocce

Hai sapore di tempesta sulle labbra – Ma dove te ne andavi
Per intere giornate nella dura fanasia della pietra e del mare?
Il vento che porta le aquile spoglió le colline
Spoglió il tuo desiderio fino alle ossa
Le figlie dei tuoi occhi raccolsero la testimonianza della Chimera
Mentre la linea del ricordo rabbrividiva di schiuma!
Dove sta la costa ben nota del piccolo settembre?
Sulla terra rossa con cui giocavi con il capo basso
La macchia d’arbusti delle altre ragazze
Gli angoli dove le tue amiche abandonavano fasci di rosmarino.

Ma dov’era che te ne andavi
Tutta la notte con il duro incantesimo della pietra e del mare?
Ti diceva di misurare nell’acqua nuda i suoi giorni luminosi
Che supina godessi dell’alba delle cose
Che ancora andssi errando per i campi dorati
Col trifoglio della luna in petto eroina del giambo

Hai sulle labbra il sapor del temporale
E un vestito rosso come il sangue
Nell’oro piú profondo dell’estate
Nell’aroma dei giacinti – ma dov’era che te ne andavi?

Quando scendevi verso le spiagge, verso le baie, i ciottoli
V’era fresca erba marina, salubre
Ma sul fondo un’emozione umana sanguinava
Sorpesa spalancavi allora le braccia pronunciando il suo nome
Risalendo leggera fino alla trasparenza delle profonditá
Dove luceva la tua stella marina.

Ascolta, la parola è la sapienza degli ultimi
Il tempo un frenetico scultore di uomini
E sopra il sole ci mette una bestia di speranza,
E tu, ancora piú vicina a lui stringi un amore
Che sa di temporale sulle labbra

Azzurro fino al midollo non potrai contare su un’altra estate
Perché i fiumi invertano il corso
E ti portino indietro da tua madre,
Perché tu possa ribaciare altri ciliegi
O cavalcare il Mistral

Ferma sulla roccia senza oggi, senza domani
Tra i pericoli delle rocce con chioma di temporale
Prenderai congedo dal tuo enigma.

*** ^


Etá del glauco ricordo

Lontano viti e olivi fino al mare
Ancora piú lontano rosse barche di pescatori fino al ricordo
Elitre dorate di Agosto durante la siesta
Con alghe o conchiglie. E quella imbarcazione
Appena varata, verde che nella calma del seno delle acque
Ancora puó leggersi Dio provvede

Passarono gli anni come foglie o ciottoli
Ricordo i ragazzini, i marinai che partivano
Tinte le vele come i loro cuori
Cantavano ai punti cardinali
Portavano i venti del nord tatuati sul petto.

Che cosa cercavo quando giungesti tinta d’aurora
Negli occhi l’etá del mare
Il vigore del sole nel corpo – che cercava
Nel fondo delle grotte marine dei sogni spaziosi
Dove il vento faceva schiuma dei suoi sentimenti
Glauco e sconosciuto, incidendo sul mio petto il suo emblema marino

Con sabbia tra le dita chiudevo le dita
Con la sabbia negli occhi stringevo le dita
Era il dolore –
Era aprile ricordo quando sentii per la prima volta il tuo peso umano
Il tuo corpo umano fango e peccato
Come nel nostro primo giorno sulla terra
Facevan festa le amarillidi – Ricordo tuttavia che provasti dolore
Fu un profondo morso sulle labbra
Un graffio sulla pelle proprio dove resta inciso per sempre il tempo
Allora ti lasciai

E un alito rumoroso sollevó le candide case
I bianchi sentimenti appena lavati lassú
Nel cielo illuminato da un sorriso.

Lo avró allora vicino a me un otre d’acqua immortale
Un abbozzo della libertá dl vento che si agita
E quelle mani tue ove l’Amore si tormenterá
E quella tua conchiglia in cui risuonará l’Egeo.

*** ^


Trad. genseki

Il Fabbro

Era solo il vento che si udiva
Fischiare fuori dalle tapparelle verde oliva
Quel vento che adesso modellava le lenzuola
Le ginocchia si infiltrava tra braccia
E ombelico
Increspava il vino rosso nel bicchiere
Del Fabbro all'osteria del borgo
Conferendogli quel lieve gusto di prezzemolo
Perché era una gabbia non un prato
Una gabbia piena di scintille
Una voliera piena di schegge luminose
In cui si carbonizzava il suo dolore
Nelle infinite cerimonie dell'accoppiamento
Perché era solo in fondo, dentro di lei
Era sempre solo semre piú solo
In gabbia e le tapparelle che sbattevano
Alcuni isolati piú in la come nacchere
Gigantesche aprendosi e chiudendosi
Sulle gengive grige dei davanzali
Come valve di vongole sudate
Non potevano servire da messaggeri
Tra la sua fiamma e quelle ginocchia
Tra la pupilla del suo stupore
E l'affronto consumato dal vento al loro tepore
Quanto vento ha soffiato o Fabbro!
Da piazza Baracca al Kon tiki
Eppure quel ventre. Il suo:
Come ogni altro ventre è rimasto sterile
Vuoto come una bottiglia verde
Sul tavolo zoppo di un'osteria
Mentre il mattino trascina il suo guanciale
Tra i frassini e le farnie in cerca del vento
Che solo puó spegnere l'arsura
Di tutta questa inconsapevoe sterilitá.

*

genseki

Feu de joie

Camera ad ore

Alla locanda dell'Universo alla locanda dell'Aveyron
La metropolitana passa dalla finestra
La ragazza dagli occhi in sol forse verrá da me
Cuor mio
Che mai le diremo quando infine la vedremo
Conta i fiori cara mia
Conta i fiori del muro
Un gerbido è il mio cuore
Attenzione la scala è instabile, salire non è sicuro
Dove sei bella cow-girls
Che pascoli gli amanti lungo il Tigri.

Louis Aragon
Feu de Joie
trad genseki

American String Quartet - Shostakovich String Quartet No. 3 in F Major -...

Feu de joie

Giovedí puro

Strade, campagne, dove correvo? Gl specchi mi cacciavano alle svolte, verso altre paludi.
I viali verdeggianti! Un tempo, ammiravo senza sbattere le palpebre, ma il sole non è piú un'ortensia. La victoria rappresenta un carro allegorico: Flora e quella sgualdrina dalle labbra esangui. Troppo lusso per un prato senza tante pretese: ai pavesi, le bandiere! Tutte le morose saranno alla finestra. In mio onore? Che granchio state pigliando. Il giorno va penetrandomi. Che cosa vogliono da me gli specchi bianchi e le donne incrociate? Gioco o menzogna? Ad ogni modo non è questo il colore del mio sangue.
Sul fiammeggiante bitume di Marte, o bucaneve! Tutti mi hanno letto nel cuore.
Che vergogna! Che vergogna!
L. Aragon
Feu de joie
Trad. genseki

La morte dei castagni

La morte dei castagni era una morte che scorreva
Scorreva nelle vene del latte
Nel grigio di tutti i muschi era una morte
Senza scheletro una morte falena
Una morte di feltro tra le pagine di una morta poesia
Una morte di pane tra mani empie
Una morte di farina avvolta in banconote
Una morte scabbiosa in un letto di rame
La morte dei castagni era anche la mia polvere
Il bruco bianco, quello di gelo sul manto azzurro
Della Vergine Maria la ruggine roca del suo seno
Il dolore dell'assenza del bambino
La morte dei castagni era luce azzurra
Era parrucca di mosche voraci
Era la cipria della vecchia dimenticata
Nella sua stanza dal napalm
Di guerre scadute era il siero sul mio palmo
Il flusso dei tuoi occhi non di lacrime
Non di sale dolce come una candela spenta
Prima del sipario voluttuoso dei profumi
Incenso felci amarezza
Un vescovo verde decapita i piselli
Il loro sangue colloso schizza sui paramenti
La morte era solo quella dei castagni
Nelle mani troppo nodose dei vescovi ortolani.

6 ottobre 2010

genseki

Odysseas Elytis

mercoledì, novembre 03, 2010

Il sole soliarca

Odysseas Elytis

Il battello impazzito

Il battello impazzito che salpa verso il monte
Alzando il gran pavese inizia la manovra.

Ecco l'ancora affonda tra i pini da pinoli
Carica aria fresca per casi di emergenza

Fatta di pietra nera, fatta di sogni tenui
Un capitano ingenuo astuti marinai

Raggiunge il tempo andato attraverso l'abisso
Scarica delusioni e gemiti e sospiri

Vieni Cristo Signore esclamo con stupore
Che battello impazzito proprio un battello folle

Per anni ci ha portato non abbiam naufragato
Con mille capitani tutti li sostituimmo

I cataclismi mai li abbiamo messi in conto
Siam penetrati ovunque sempre ne siamo usciti

Sull'albero maestro sta la vedetta attenta
Eternamente vigile il Sole Soliarca

trad genseki

lunedì, novembre 01, 2010

Nel mio sogno morivi

Nel mio sogno morivi
Finalmente eri vinto
Che non c'era paura
Ormai capivi
Nel mio sogno morivi
Ed era la tua morte
Anche la mia
Nel sogno a me
Infine tu morivi
Libero ormai
Da quanto ti sconfisse
Dolce sconfitta
Ora sapevi accogliere
Ora sapevi accettare l'abbraccio
E del mondo sereno
Nella pioggia
Ascoltare il tepore
Nel sogno a me morivi
Dal tuo sogno fuggivi.

*

genseki

lunedì, ottobre 25, 2010

Marina

Odysseas Elytis

Marina

La menta mi devi donare
Verbena e basilico aspetto
Perché ti possa baciare
Che mai dovró ricordare?

Fonte di vaghe colombe
La sciabola degli Arcangeli
Giardino di bianche stelle
La sotto il pozzo insondabile

Quando di notte ti portavo
All'altro estremo del cielo
Ascendere ti contemplavo
Di Vespero come sorella

Marina verde stella mia
Marina luce vespertina
marina tu colomba mia
E giglio della calura

Trad. genseki

Mikis Theodorakis- Maria Farantouri: MARINA - ΜΑΡΙΝΑ

sabato, ottobre 23, 2010

José Coronel Urtecho

José Coronel Urtecho

Questo è come la luce
Questo è luce
Utile come la luce
Così adorabile
Incantevole

La poesia è di sicuro
Pú interessante e più apprezzata
E certamente piú incantevole
Delle cascate del Niagara, del Gran Canyon
l'Oceano Atlantico
E altri ancora piú ammirevoli fenomeni naturali.
È utile almeno come la luce e altrettanto meravigliosa.
Stravagante
Precisamente perché rende possibile dire
Che non è possibile far muovere una montagna ma una poesia
Puó
Essere mossa ovunque.

Gratamente mostruosa
Perché puó dire sul serio o per scherzo:
"La poesia è migliore della speranza,
Perché la poesia è la pazienza della speranza,
E tutte le immagini vive della speranza,
La poesia è meglio dell'eccitazione, piú deliziosa,
La poesia è superiore al successo e alla vittoria.
La sua serena benedizione persiste
Molto dopo che la piú favolosa prodeza
È decollata come un bengala ed è caduta
La poesia è un animale molto piú afascinante e potente
Di quanti bosco, giungla, arca, circo, o zoo
Possano contenere".

Perché la poesia ingrandice e sublima la realtá:
La poesia dice della realtá che se è magnifica
È pure stupida:
Perché in certo modo la poesia è onnipotente,
Perché la realtá è varia, ricca, potente e viva,
Ma non basta,
Perché è stupida e disodinata o solo a tratti
In modo erratico, intelligente:
Perché senza la poesia la realtá è muta
O incoerente:
È incipiente, come la pompa e la magniloquenza del tuono
I suoi sermoni confinano conl'incessante orazione dell'oceano:
Perché lo splendore e la gloria della realtá
Senza la poesia,
Impallidiscono, come le rosse recite del crepuscol
I fiumi blu, le finestre matutine.
L'arte della poesia rende possibile dire
Pandemonium.
Perché la poesia è allegra e esatta. E dice:
"Il tramonto sembra una corrida.
Un braccio addormentato si sente come soda,
Effervescente".

La poesia risuscita il passato, come Lazzaro,
Trasforma un leone in sfinge e ragazzina.
Conferisce a una ragazzina lo splendore del latino
Converte acqua in vino in tutte le nozze di Cana in Galilea.
Insomma è un fatto che la poesia inventó
L'unicorno, il centauro e la fenice.
Eppoi! La poesia è un'arca perenne,
Un autobus che custodisce, trasporta e partorisce tutti
Gli animali della mente.
Per questo la poesia diede e da la parola al perdono
Per questo una storia della poesia sará una
Storia dell'allegria e una storia
Del mistero d'amore,
Perché la poesia fornisce spontanemene
Abbonantemente e liberamente
Tutti quei vezzeggiativi e diminutivi di cui
L'amore ha bisogno e senza i quali il mistero dell'amore non si domina.
La poesia è come luce è luce.
Risplende su tutte le cose come il cielo azzurro
Con eguale azzurra giustizia.
La poesia, infatti, è la luce del sole del conscio.
È la terra dei frutti del sapere
Negli orti dell'essere:
Ci insegna i piaceri della cittá
Illumna le strutture della reatá.
È una delle cause del sapere e del ridere:
Affila i fischi degli intelligenti:
È come il mattino e i flauti della
Mattina che cantano incantatori.
È come nascita e rinascita della
Prima mattina per sempre.
La poesia è rapida come le tigri, abile come
I gatti, piena di vita come le arance.
E tuttavia è immortale: sempre-verde e
Sempre-in-fiore; molto dopo che i faraoni e i cesari sono crollati,
Continua a brillare e dura piú che diamante,
Perché la poesia è la attualitá della
Posibilitá. È
Realtá dell'immaginazione
Garanzia di esaltazione
Processione di possesso
Attivitá di significazione e
Significazione del mattino e
Maestria di significazione.

La lode della poesia è come la chiaritá delle
Cime dei monti,
Le cime della poesia sono come l'esaltazione delle montagne.
È la consumazione della coscienza nel paese del domani!

Da Pol-la d'anánta, katánta, paránta .... 1970

Memorie di Dreiser Cazzaniga

Il mio Comunismo

Riporto qui queste poche linee di Dreiser Cazzaniga che ho trovato in un taccuino omaggio delle supposte UNIPLUS. Il comunismo cui Dreiser Cazzaniga si riferisce è quello che nei Barrios del Norte si esprimeva soprattutto nelle grandi feste della Salciccia, con la rumba e le ragazzone grassone con le gonne di cotorne a fiori. Qualcuno di questi militanti diventava Alguazile di un barrio, talvolta e ingrassava, la faccia si copriva di rughe sagge con le lacrime agli occhi raccontgava ai giovani della bellezza del grande paese della steppa in cui era stato in torpedone per una visita coatta e oobligata di 4 giorni ai mausolei dei suoi dirigente assassinati da quegli stessi che, una volta mummmificati, affermavano di venerarli.
genseki

Sul mio Comunismo

In realtá io non ho avuto mai un incontro, o un'esperienza di quello che fu davvero il comunismo. Quel comunismo per cui milioni di persone furono disposti a sacrificare tutto anche la vita e ad affrontare morte e disperazione, Quello che ho conosciuto era una pallida immagine dell'originale o, peggio ancora, una tossica contraffazione. I comunisti che ho conosciuto io non erano in grado di sacrificarsi per niente e per nessuno il loro orizzonte mentale era limitato al consumo, nei confini del quartiere o del paese. Comunismo era per loro, al massimo il nome di una rivalsa individuale, di un'individuale promozione sociale, o piú semplicemente, nel caso di quelli che avevano meno capacitá, pura e semplice invidia e risentimento. Il comunismo era generositá e amore. In tutti coloro che ho conosciuto e che si chiamavano comunisti non ho mai visto né generositá né amore. Forse la parola che meglio descrive il tono fondamentale del loro carattere è risentimento. Risentimento che si mescolava di volta in volta con la paura, l'invidia, la grettezza, la rabbia. Il comunismo era passione per la giustizia. Tra i comunisti che mi è toccato in sorte di incontrare non vi era, davvero, passione per l'ingiustizia. Rabbia per l'ingiustizia subita e anche dolore si, certo, ma non passione per la giustiizia da fare (che la giustizia è fare) agli altri.
Così il mio comunismo fu sempre libresco, passione cartacea, pergamenaceo, astratto. Fu, insomma, un equivoco in piú di una vita fondatata sul vuoto e appunto sull'equivoco.
Dreiser Cazzaniga

martedì, ottobre 19, 2010

Febbre

L'abbraccio delle felci cancellava
Il felice ricordo degli accordi,
Che risuonavano tra l'erica e i miei passi,
Quanto ho bevuto dalla fonte ove
Piú non bevo: purezza fin da giovane
Fuggendo, occulto educavo la vergogna
Nel sentiero selvoso nascondendo
L'amore che negavo, la rampogna
Che mi fece nemico del mio bene
Al mio gene ribelle, al candore inetto
Poi finalmente rinnegai giovinezza
Come la serpe che cambia di pelle
Vissi di stizza ora riposo in febbre.

genseki

Messiaen: "Un vitrail et des oiseaux"

lunedì, ottobre 18, 2010

Luigi Nono : Prometeo, I. (Prologo) --- 1/2

2 Ottobre

Fu nel momento in cui l'ora si apriva
Che la lasciai filtrare tra le mani
Nell'equilibrio sobrio della schiuma
Alla soglia del culmine del getto
Il battito fu allora una cascata
Di gemiti, di ritornelli, di intarsi
Luce d'abete: schizzi di conifere
Che in spirale si svincolano dal rosso
Abbraccio del granito a scaturire
In flusso di purezza verticale.

genseki

Le contemplazioni

XIV

Domani allora in cui imbianca la campagna
partiró, come vedi, so bene che mi aspetti
Andró per la foresta, andró per la montagna.
Troppo a lungo da te lontano ho dimorato.

Andró con gli occhi bassi fissi sui miei pensieri,
Solo, ignorato, curvo e con le mani in croce,
Senza vedere nulla, sordo ad ogni rumore,
Triste sará il mio giorno, e la mia notte atroce.

Non guarderò il tramonto che si colora d'oro,
Né le vele lontane in rotta in rotta verso Honfleur,
E quando giungeró poseró sul tuo avello
Un mazzetto di vischio e di erica in fiore.

giovedì, settembre 30, 2010

Morire

Ah! Tutto questo è proprio un gran morire
Un morire di morte che ci muore
CHe ci muore a morire d'ogni morte
Che ci tonde la chioma foglia a foglia
Che ci spoglia e disgrega in muta argilla
Come si sfoglia ora la parola
E ne resta la pala che si affonda
La dove a morte ognun ognora muore.

genseki

Decostruendo Lutero

Come potevamo smontare Lutero
Considerare la sua mascella come un edificio
Fare degli occhi una cavitá urbana
Una grotta metropolitana
Come stanare i topi della sua incoscienza
Installati, noi peccatori
Sotto la pioggia detergente
Di sangue ossidato, di origano e grano
Grano cosí biondo spighe su spighe immense biche?
Tutto tutto dipendeva dai suoi occhi
Maturati come vecchie prugne e il calamaio di Worms
Statico il suo passo, dipanava il sentiero
Con il suo incedere retto
Per furibonde diagonali, strabica rotta
Senza collo: capitello troppo rigido
Nella fotografia con il saio - colpa dell'amido -
La corda del mugnaio cingendo: l'orribile latrato
Del cavallo che scivola sull'argilla - finalmente -
Sull'argilla? No non era Guernica!
Fu gesucristo che parló con i suoi tomi
Che svolazzavano come pipistrelli
Sotto le volte della biblioteca,
Il tessuto delle sue mele, il moccolo
Mentre lui strillava parole scheggiate
all'immensa vetrata della Fede.

genseki

léo ferré - Rimbaud - le bateau ivre
Cargado por bisonravi1987. - Videos de música, entrevistas a los artistas, conciertos y más.

Rimbaud - Le bateau ivre (Gerard Philipe)

Il battello ebbro

Dedicato alla Gaviota de Solentiname


Mentre andavo scendendo per i fiumi impassibili
Notai che i battellieri non mi guidavan piú:
Pelle rossa chiassosi gli avevan bersagliati
Per inchiodarli nudi a pali colorati.

Io che non sopportavo di avere un equipaggio.
Carico di frumento e cotone britannico
Perduti i battellieri con il loro baccano,
I fiumi mi permisero di scendere a mio arbitrio.

Nello sciabordio furioso dei marosi,
Per un inverno intero, piú sordo dei cervelli
Dei lattanti io corsi! E salpate penisole
Non subirono mai un simile saccheggio.

Tempeste benedissero i risvegli marini.
Più leggero d'un tappo ho danzato sui flutti,
Che eternamente portano le salme delle vittime
Dieci notti lontano da ogni faro sciocco!

Piú dolce che ai bambini polpa aspra di pomi
Penetró l'acqua verde il mio guscio d'abete
Lavando macchie azzurre di vino vomitato,
Trascinando con se il timone e gli uncini.

Da allora mi bagnai nel poema del mare
il mare lattescente come infuso di astri.
Che azzuri verdi inghiotte; ove discende a volte
Un pallido annegato dall'aspetto pensoso

Ove di colpo vanno colorando gli azzurri,
Deliri e ritmi lenti nel rutilante giorno,
Piú forti che lo spirito piú vasti che le lire
I rossori d'amore in amaro fermento!

So i cieli crepati in lampi, e le trombe
E risacche e correnti: e poi la sera e l'alba,
Come se di colombe fosse un popolo in volo,
E qualche volta ho visto ció che l'uomo ha creduto!

Ho visto soli bassi, macchie d'orrori mistici,
Illuminare lunghi coaguli violetti,
Simili ad attori di drammi antichissimi
Flutti che allontanavano brividi di persiane!

Sognai la notte verde delle nevi abbaglianti,
Salir fottendo agli occhi dei mari con lentezza,
E la circolazione delle linfe inaudite,
Giallo risveglio azzurro di fosfori cantori!

Ho seguito, per mesi le transumanze isteriche
Delle onde che andavano assaltando i frangenti,
Non pensando che i piedi splendenti delle Vergini
Possan forzare il muso degli oceani ormai bolsi!

Ho urtato, credetemi! Le Floride incredibili
Che mescolano ai fiori gli occhi delle pantere
Dalla pelle di uomo! Gli arcobaleni tesi
A glauche mandrie sotto l'orizzonte marino!

Ho visto fermentare maree enormi, nasse
Ove un Leviatano marcisce tra le canne!
E franare le acque in mezzo alla bonaccia,
Le lontananze ai vortici cadendo in catarratta!

Ghiacciai, soli d'argento, onde madreperlacee
Cieli in fiamme e relitti in fondo ai golfi bruni
Ove le pulci rodono giganteschi serpenti
Che in profumi si disfano sugli alberi contorti!

O quanto avrei voluto far vedere ai bambini
Dorate in flutti azzurri, canori pesci d'oro!
In secca mi cullai tra le schiume fiorite,
Ed i venti ineffabili mi prestaron le ali.

A volte, stanco martire dei poli e delle zone
Il singhiozzo del mare m'addolciva il rullío
Fiori d'ombra innalzando dalle gialle ventose
Che in ginocchio accettavo come se fossi donna...

Penisola scotendo ai miei bordi le liti,
Escrementi d'uccelli stentorei d'occhi biondi.
Vogavo e nell'intrico del cordame allentato
Scendevan come gamberi gli affogati a dormire!

Or io battello perso nelle chiomate cale
Nell'etra senza voli gettato dal tifone,
Che i velieri anseatici e gli esploratori
Avrebbero sdegnato carcassa ebbra di acqua;

Libero, fumigante carco di brume viole
Che perforavo il cielo rossastro come un muro
Portando, confetture che adorano i poeti,
I licheni del sole e le muffe del cielo;

Che correvo, macchiato di lunule elettriche
Folla plancia, scortato dagli ippocampi neri,
Quando luglio abbatteva a secche scudisciate
I cieli ultramarini dai vortici infuocati;

Io che tremavo, udendo il gemito remoto
Della foia dei Behemot e degli spessi Maelstrom,
D'immobilitá azzurre eterno seguitore,
Io rimpiango l'Europa dai parapetti antichi!

Ho visto gli arcipelaghi siderali! Le isole
Dai cieli deliranti aperti al rematore:
In notti senza fondo forse dormi e ti esili,
O milione d'uccelli d'oro, o futuro vigore?

Davvero ho troppo pianto, mi straziano le albe
Atroce m'è ogni luna ed ogni sole amaro:
Mi gonfió l'acre amore di sonni inebrianti.
Che scoppi la mia chiglia! Voglio colare a picco!

Se desidero un'acqua d'Europa, è la pozzanghera
Algida, oscura, ove, nel vespro profumato
Un bimbo ,accoccolato, tristemente abbandona
Come farfalla in maggio un fragile battello.

Non posso piú bagnato dai languidi marosi,
Succhiare ancor la scia ai carghi del cotone,
Né attraversar l'orgoglio delle bandiere in fiamme,
Né nuotar sotto gli occhi orribili dei moli.

Arthur Rimbaud
Trad, genseki

lunedì, settembre 27, 2010

Quello che restava di te

Di te non restava pietra di denti
Moneta di articolazione né sale
Scalza l'avevi scesa vertebra a vertebra
La divinazione dell'esoscheletro
E la spirale piú non era che polvere
Secco marcire asiutto compatire
La cuspide di bronzo, l'intelaiatura
Scricchiola pericolosamente
La cavitá oculare delle stelle
Lontana da qualunque vegetale-

genseki

Hans Werner Henze: Prison Song

Diana e il cardinale

Scostavi dall'assalto l'ampio volo
Con l'elitra, con l'altra mano
Con quello appena che restava della sguardo
Mandorla! Calmo come il lago
Lo sciame delle speranze, la fedeltá,
Latrano - dicevi con l'arco lunare
Minacciando cecitá ai discepoli,
Il cacciatore andava marcando
I suoi tarocchi uno per uno.
L'arco - dicevi non vedrá il mio seno
Costellazione della prima caduta
O cardinale sacro al sicomoro,
L'albero dalle bianche camicie
Macchia di sangue alla radice della neve
Al gelido fusto di screpolato candore
Scostavi con la mano il fragore degli occhi
Il coagulo del volo nel fantasma del tempo
L'abito cardinalizio rende impura la luna
Per il parto dell'albero che videro i tarocchi.

genseki

La morte di Dreiser Cazzaniga

Tra gli appunti del compianto Durfai acronico o ucronico amico di Dreiser Cazzaniga è stato trovato un foglietto che, in forza di un'annotazione sul retro, pare riferirsi agli ultimi minuti di vita del nostro Dreiser. Sono poche righe nel francese lievemente arcaico del Durfai che non oso tradurre per non rovinarne la bellezza appassita:

"Il avait les yeux hâvres et enfermés, la mâchoire inférieure couverte seulement d'un peu de peau paraissait s'être retirée, la barbe hérissée, le teint jaune, les regards lents, les souffles abattus. De sa bouche il ne sortait déjà plus de paroles humaines mais des oracles".

a cura di genseki

giovedì, settembre 23, 2010

Crocifissione

Da quando lo crocifissero il mare
Sulle ali viola, sugli spalti delle nubi
Sulle splendide visioni delle diatomee
Cominciarono a gocciolare furibondi
Estremi e cauti glauchi come fuchi
Da quelle mille ferite, dalle screpolature
Dagli iati come sbadiglio gli scampoli
Di tutti quei significati Era il simbolo
Finito di quell'infinito autunno in cui aggrapparsi
Al sonno marino, alla sera all'ocra dei boschi
Allo scorrere azzurro della selvaggina
Sui sentieri di muschio
Da quando lo crocifissero: il mare era tutto un calare
Di speranze dal nord di brandelli di lupi
Di zanne e ocarine e tutti quei ciondoli
come una ripida trina di schiuma laddove
Sfrangiata si spreca ogni altra possibile spiegazione
Che cosa spiegare? La solitudine
Il margine che confonde il nulla con l'altare?
Interrogare punteggiando le frasi con il sangue del mare
Mare incoronato di spine, una per ogni goccia
Flagellato di iodio e ferroso come qualsiasi altro deserto
Mare che crocifissero altri ad altre ali
Ancora piú in la di ogni possibile me stesso.

Figlio unico (Yasujiro Ozu, 1936). Una scena / 1

Digital Music Ensemble - Helicopter String Quartet

mercoledì, settembre 22, 2010

La croce

Dopo le tante assurditá che hanno careatterizzato il già inattuale dibattito sulla presenza del crocifisso nelle aule italiane queste considerazioni sono una fresca, aurorale meraviglia, Riflessioni laiche, elegantemente epicuree, dell'epicureismo ancora possibile all'aurora del passato secolo dell'annientamento e dell'ariditá dei cuori e pure profondamente rispettose della croce di cui negano la favola e affermano la lezione.
La croce
Di George Santayana
Trad. genseki

Il piede della croce – non oso dire la croce stessa – è un buon posto da cui contemplare la vita. Nei piú grandi dolori vi è una calma tragica: si esaurisce la furia della volontá e i nostri pensieri si elevano a un altro livello; come la gioia fracassona e le oscure pene della prima infanzia che sono impossibile nella vecchiaia. Spesso la gente fa croci di fiori o di oro, a me piace vedere il crocifisso smaltato circondato riccamente di volute e incrostato di gioielli, senza questo elemento di istinto pagano la religione della croce non sarebbe né sana né giusta. Alle falde del Monte Calvario si trova il giardino della resurrezione: non mi rifersico a nessuna resurrezione melodrammatica come quelle rappresentate nella letteratura giudaica e in quella cristiana, bensí a quella che succede tutti i giorni davvero, tranquilla dolcemente, alla luce del piú chiaro giorno, nel chiostro, in casa, nella mente rigenerata. Dopo aver rinunciato al mondo l'anima puó tornare a trovarlo piú amabile, puó viverci con un sorriso, con qualche mistico dubbio e con un piede nell'eternitá. La vanitá è innocente quando si riconosce che è vana e non è piú una disgrazia per lo spirito. La feliecitá della sapienza, al principio puó sembrare autunnale, e l'ombra della croce, l'ombra della morte; si tratta tuttavia di un'ombra curativa; e, dopo poco tempo, dalll'edicola in cui abbiamo collocato la croce ci sorpende il profumo della violetta e la rosa dello zafferano si sporge tra le spine. Lo sfondo scuro che apporta la morte sottolinea i colori delicati della vita in tutta la loro purezza. Lungi da me il voler suggerire che l'esistenza sia buona in quanto preceduta e seguita dalla non esistenza; è tuttavia certo che se l'uomo fosse immortale non ci sarebbero nella sua esperienza, la tradizione, il linguaggio, l'infanzia, l'amore e neppure la vecchiaia …. posto che, di fatto. La nascita e la morte accadono effettivamente e il nostro breve cammino è circondato dal vuoto, molto meglio è vivere alla luce del tragico fatto che dimenticarlo o negarlo e costruire su di una menzogna fondamentale.




lunedì, settembre 20, 2010

George Santayana


George Santayana

Sull'impermanenza

Da: "Soliloqui in Inghilterra"

Siamo avvertiti che il Giorno del Giudizio sará pieno di sorprese: una di queste, forse, è che nel Cielo le cose saranno piú instabili che sulla terra e che le dimore che lassú sono state preparate per noi non soltanto saranno vaste ma anche insicure.

*

I Castelli di Nuvole sono segni cje l'eternitá non ha nulla da spartire con la durata, né la bellezza con l'esistenza sostanziale e che persino in Cielo la nostra felicitá deve essere fondata su di una sorridente rinuncia,

*

Sull'amicizia

L'amicizia è sempre l'unione di una parte di un'anima con una parte di un'altra, La gente è amica a compartimenti stagni. L'amicizia a volte si basa sulla condivisione di ricordi precoci come fanno i fratelli o i compagni di scuola, i quali, spesso, salvo per questa antica e affettuosa familiaritá si considerano mutuamente antipatici ed estremamente noiosi. Altre volte dipende da piaceri o divertimenti passeggeri o da obiettivi comuni particolati e altre ancora dalla mera convivenza e dall'assenza di virtú nel vivere insieme.

*

L'amore tra amici in gioventú, quando d'amore si tratta piuttosto che di amicizia, possiede una tendanza mistica. RIcorda pel suo carattere anche se raramante per la sua intensitá, il dardo che, in estatica visione, attraversava il cuore di Santa Teresa e faceva esplodere l'involucro ordinario in cui si preserva il flusso del sangue di generazione in generazione, nello stretto canale dell'esistenza umana dell'umana schiavitú.

trad genseki

venerdì, settembre 17, 2010

Tristan Tzara


Sul sentiero delle stelle marine

Tristan Tzara

Sul sentiero delle stelle marine

A Federico Garcia Lorca

Che vento soffia sulla solitudine del mondo
Che mi sovvengo degli esseri cari
Fragili desolazioni aspirate dalla morte
Oltre le cacce gravi del tempo
Godeva il temporale della sua prossima fine
Che sabbia non arrotondava giá la dura anca
Ma sulla montagna sacche di fuoco
Vuotavano a colpi sicuri la luce di preda
Pallida e corta come l'amico che si spegne
Di cui nessuno piú sa dire il contorno a parole
Nessuna chiamata all'orizzonte ha il tempo di soccorrere
La forma misurabile solo quando scompare

E così da un lampo all'altro
L'animale sempre tende la groppa amara
Lungo i secoli nemici
Attraverso i campi sicuri di parata d'altra avarizia
E nella sua rottura si profila il ricordo
Come la legna che scricchiola segno della presenza
Della necessitá disperata.

Ecco anchei frutti

Non dimentico i frumenti
E il sudore che li ha fatti crescere sale alla gola
Eppure conosciamo il prezzo del dolore
Le ali dell'oblio e i foraggi infiniti
A fior di vita
Le parole che non giungono ad afferrare i fatti
Nemmeno per usarle per ridere

Il cavallo della notte ha galoppato dagli alberi al mare
E riunito le redini di mille oscuritá caritatevoli
Si è trascinato lungo le siepi
Dove petti di uomini trattenevano l'assalto
Con ogni mormorio aggrappato ai fianchi
Tra immensi ruggiti che si acchiappavano
Sfuggendo la forza dell'acqua
Incommensurabili si susseguivano mentre micromormorii
Non erano deglutiti e galleggiavano
Nell'inesporimibile solitudine solcata dai tunnel
Le foreste di mandrie delle cittá i mari aggiogati
Un uomo solo al soffio di molti paesi
Riuniti a cascata scivolando su una lama liscia
Di fuoco sconosciuto che s'insinua a volte la notte
A perdere coloro che il sonno assembla
Nel ricordo profondo

No non parliamo piú di quelli che si sono avvinti
Ai fragili rami, al mal umore della natura
Gli stessi che subiscono i rudi colpi
Tendono la nuca e sul tappeto dei loro corpi
Quando gli uccelli non piangono piú i chicchi del sole
Suonano i rigidi stivali dei conquistatori
Mi sono usciti dalla memoria
Gli uccelli cercano altri impieghi di primavera
Al loro calcolo delle sinecure
Per greggi affascinanti di sgomento
Il vento sulla nuca
Che metttano loro in conto il deserto
Al diavolo i sottili avvertimanti
I divertimenti coquelicot e compagnia bella
Raschia il freddo
La paura cresce

L'albero secca
L'uomo si screpola
Sbattono le persiane
Cresce la paura
Nessuna parola è abbastanza dolce
Per ricondurre il bimbo delle strade
Sperduto nella testa
Di un uomo sull'orlo della stagione
Guarda la volta
E l'abisso
Pareti stagne
Fumo nella gola
Il tetto si sgretola
Ma l'animale famoso impennato
Nell'attenzione muscolare distorto dallo spasmo
Della fuga vertiginosa del lampo di roccia in roccia
Si scatena all'appetito della gioia
Il mattino rifá il mondo
Alla misura del suo giogo

Predone dei mari
Ti sporgi per l'attesa
E ti alzi e ogni volta che saluti il mare ai tuo piedi
Sul sentiero delle stelle marine
Deposte da colonne d'incertezza
Ti sporgi ti sollevi
Saluti smazzati a strisce
E nel mucchio devi muoverti
Anche evitando le piú belle devi muoverti
Ti sporgi
Sul sentiero delle stelle di mare
I miei fratelli gridano di dolore dall'altra parte
Bisogna prenderli intatti
Sono le mani del mare
Offerte a uomini da nulla
Sentiero glorioso sul sentiero delle stelle marine
“Alcachofas alcachofas” la mia bella Madrid
Dagli occhi di stagno dalla voce di frutta
Aperto ai quattro venti
Vapor di ferro ondate di ferro
Sono gli splendori del mare
Bisogna prenderle intatte
Quelle sui rami spezzati rovesciati
Sui sentieri delle stelle di mare
Dove porta tal sentiero al dolore porta
Gli uomini cadono quando vogliono rialzarsi
Gli uomini cantano perché hanno assaporato la morte
Eppur bisogna andare
Calpestare
Il sentiero delle stalle marine con colonne di incertezza
Ma ci si impiglia nella voce delle liane
“Alcachofas alcachofas” la mia bella Madrid dalle luci basse
Aperta ai quattro venti
Che mi chiama – lunghi anni – d'ortiche
Testa di figlia del re figlia di puttana
Ê una testa è l'onda che si spezza
Comunque è il sentiero delle stelle marine
Che si sono aperte le mani
E non parlano della bellezza dello splendore
Null'altro che riflessi di minuscoli cieli
E impecettibili strizzate d'occhio tutt'intorno
Onde spezzate
Predone marino
Ma è Madrid aperta ai quattro venti
Che calpesta le parole nella mia testa
“Alcachofas alcachofas”
Capitelli di grida irrigidite

Apriti cuor infinito
Per penetrare il sentiero delle stelle
Nella vita innumerevole come la sabbia
E la gioia dei mari
Che contenga il sole
Nel petto dove brilla l'uomo di domani
L'uomo d'oggi sul sentiero delle stelle di mare
Ha piantato il segno avanzato della vita
Come va vissuta
Il volo liberamente scelto dall'uccello fino alla morte
Fino alla fine delle pietre e delle etá
Gli occhi fissi sulla sola certezza del mondo
Da cui scorre la luce spazzola a fil di suolo

Tristan Tzara
Trad. genseki

mercoledì, settembre 15, 2010

Merli e limoni

Tutti avevano un limone nel giardino
E tutti i merli che lo perforavano
Di fitte e punture ancora piú gialle
Tutti avevano un merlo nel giardino
O nel fondo del mare o di se stessi
Frondoso lasciava cadere le sue note
Come monete nude tra i limoni
Alcuni poi avevano merli e limoni
Nel giardino in casa nel cuore
Si scambiavano nome e cognome
Limoni e merli amari e verdi
E aspettavano la morte come una mandorla
Adagiando il capo dissetato
Sul candido frescore del cuscino.

genseki

Tristan Tzara

Le porte si sono aperte senza rumore sono ali
Di gravose lande dalle braccia distese
Steppe di ferro scavalcano i canali
Ove si sparsero le ossa delle carovane perdute
I corpi tesi delle strade pensili
Bruciano il gargarozzo delle folle fredde
Selvaggia luce dorme nel letto del fiume
La vitrea prora dell'aria fende
Occhi maturano nel carcere del mare
Dormono nei numeri
Ciottoli piatti tra i raggi nutrienti
Nessun dolore tenta onde di labbra
Noia naufragata sulla spiaggia dei selvaggi tessuti
Le clessidre dei corpi del sole
Fissano l'ora e l'aratro
Fumo
Linea
Boa
Nube di fiumi impetuosi riempie la bocca arida
L'uomo ni incontra l'uomo
Non incontra la barriera di pietra e i ghiacciai di uomini nudi
Nudi non hanno visitato questi luoghi sono ali
Le porte si sono aperte senza rumore
Nessuno tremerá – un grido tormenta la lana
L'esistenza stessa
Le pessime tracce delle tormbe
Perforatrici di tempeste sono ancora ali
Sotto scaglie radicali si crogiola un sole di millenari avvoltoi
Suonano lampi nella spossatezza delle acque.

Da: Ove bevono i lupi
1932

trad genseki

martedì, settembre 14, 2010

Fado Menor

Stephan Hermlin

Come sorge la poesia


Stephan Hermlin

A undici, dodici anni avevo scritto qualche poesia, Per lo piú dipendevano abbastanza fedelmente da altre poesie che mi piacevano o da un pensiero che vi avevo incontrato.
Mi interessavano le fome poetiche e mi esercitavo nell'ottava e nel sonetto, Tuttavia, mentre mi sforzavo in questi esercizi, giá avevo coscienza che le mie poesie non erano buone. Sentivo che i miei pensieri non meritavano di essere comunicati, e che io non ero in condizione di dare la forma che avevo scelto alle mie idee e ai mei sentimenti. Ogni tanto distruggevo il materiale che era venuto poco a poco accumulandosi ma nella mia vanitá giovanile non volevo comunque rinunziare a mostrarne qualche frammento ai miei genitori oppure ai loro conoscenti, Le lodi che mi aspettavo e che mi venivano concesse copiose in molte occasione mi facevano vergognare appena le avevo ricevute.
Quella sera a Ferch non avevo una intenzione particolare, non avevo pensato al metro o alla strofa. La sera era sempre piú profonda. Immobile fissavo i versi che avevo appena finito di scrivere. Non sapevo se fossero buoni, ma sentivo che era la mia prima vera poesia. Avevo allora quindici anni. Per un caso fortunato posseggo ancora quella poesia. Essa fu pubblicata un anno dopo in una antologia che molto tempo dopo la guerra ho ritrovato in una librería antiquaria. All'imbarcadero di Fech appresi per la prima volta come sorge una poesia. Non avevo nessun piano, nessuna meta, non avevo preparato nessuno schema di rime, venne la sera, percepii un lievissimo movimento che doveva durare da prima che io me ne accorgessi, gradualmente ma sensibilmente come i colpi lievissimi delle onde, contro i pali dell'imbarcadero, un fluttuare in me, un ritmico martellare e una stanchezza del respiro come delle acque che andavano facendosi scure. Da questa vibrante base sorsero due o tre parole senza relazioni tra di loro. Da quel momento cominciai a prendere sul serio le mie poesie anche se non troppo sul serio, me lo impediva la convinzione che in Germania, per quanto riguarda la poesia e la musica era impossibile superare ció che giá era stato fatto. Avevo in mente la frase di un poeta secondo il quale un uomo avrebbe potuto, nel corso della vita, scrivere sei righe decenti. Questa affermazione era contraddetta da quella di un altro poeta che che vedeva ciascuna delle sue parole, e non ne era certo avaro, come scolpite nel marmo davanti a sé. Questa seconda affermazione non ebbe un effetto significativo su di me. Mi sembrava molto piú importante la frase del primo poeta il quale non mi toglieva tutta la speranza.
Scrivere poesie divenne per me un'abitudine. Sembrava che le poesie stessero in attesa e dovessi solo chiamarle quando ne avevo bisogno. Quello che producevo risentiva delle circostanze della mia vita, degli obiettivi politici che, con altri, mi prefiggevo di raggiungere, la societá che mi pareva degna di sforzo. Tutto mi era facile tra ventidue e trenta anni – quando finí la guerra; qualche mese prima a Zurigo era uscita la mia prima raccolta di poesie. Ricordo che un giorno andai di librería in librería lungo la Bahnhofstrasse per poter vedere il mio libro esposto. Ero gioiosamente eccitato, come se avessi finalmente portato a destinazione un dispaccio, che per lungo tempo avevo portato come un gravame. Questa ingenua soddisfazione non si è poi piú manifestata. Potevo leggere molte cose amichevoli su di me, presto, peró ascoltai anche alcuni critici affermare che ero un adepto inguaribile del formalismo e di metodi inutilmente difficili. Attraversavamo un periodo in cui, per caratterizzare, molti usavano la parola “complicato”. Io
cercai di cambiare la mia poesia in conformitá con alcune di quelle opinioni. Il desiderio di essere utile divenne dominante. Un'amica straniera a cui mi confidai mi contraddissi con foga: nesuna poesia poteva essere utile nel senso da me indicato almeno per i lettori più avanzati. La sola utilitá possibile della poesia se si voleva usare questo concetto assurdo, consisteva nel suo costante rinominare l'apparentemente banale, nella sua funzione di ringiovanimento, nel suo richiamare alla coscienza ciò che era andato perduto. Mentre ella ancora parlava io mi sentivo sempre meno convinto dalle sue parole. Non potevo darle completamente torto, ma io vedevo la poesia, anche la mia costretta in obblighi e relazioni, non potevo restare fuori del tempo in cui vivevo e io perseguivo la poesia impura, non quella pura. Nel corso della mia vita ho incontrato in molti paesi, molti poeti del tipo puro di cui sono anche diventato amico. Mentre le parole della mia amica andavano affievolendosi, io vedevo la linea rossa di sangue della poesia dal tempo di Ch'ü Yüan e di Ovidio fino a Andrea Chénier e Hölderlin e dalle terre aride dell'Harrar fino ai nostri giorni passare attraverso il carcere, l'esilio e la morte. Io stavo nella fossa dove era confluito questo sangue prima che io emergessi dall'ombra. Pensavo anche a quei giorni in cui la poesia mi aveva impedito di spegnermi di ridurmi alla semplice esistenza, a quei giorni in cui mi obbligavo a leggere giornalmente tre volumetti che portavo nello zaino tra le lettere, attraverso la guerra: un Hölderlin, uno Shelley, un Baudelaire, tutta la mia biblioteca.
Dopo un certo tempo a poco a poco i versi che che avevo scritto scomparivano dalla mia vita. Si perdevano come un leggero dolore al quale si è fatta l'abitudine e che una mattina con sorpresa e non senza un senso di vuoto scopriamo che non proviamo piú. Nessun ebbe la colpa, tranne me. Qualche cosa che aveva parlato tacque …
trad. genseki

giovedì, settembre 09, 2010

Dreiser Cazzaniga e la lettera di M.Beaumont



M. Beaumont fu una delle relazioni che Dreiser Cazzaniga stabilí nel fior della prima giovinezza e nelle quali perduró per voluttá di vergogna. Giovane solitario, dallo sguardo perennemente sfuggente, intento per gran parte del tempo di qualunque converasione a mordersi metodicamente quello che restava delle sue unghie, lento anche quando tale non pareva, di una lentezza indizio di timore e menzogna profondamente sepolti nell'anima sua, fu considerato da tutti nell'umido e nebbioso Barrio come l'amico del cuore di Dreiser Cazzaniga. Tale fu la convinzione popolare che quasi si fece ovvietá, e alcuni giunsero a tal segno che immemori della realtá affermavano convinti che i due fossero fratelli o quantomeno cugini. Io stesso, il vostro servitore, Genseki, ho udito tale affermazione da Papillon il maricón ufficiale del Barrio non piú di due anni fa.
In realtá M. Beaumont odiava Dreiser Cazzaniga. Lo tormentava con piccole, continue meschinitá, ripicche, brutalitá, rivalitá e menzogne. La vita vera di M. Beaumont era quasi completamente celata allo sguardo di Dreiser Cazzaniga. Questi soleva rinnegare l'amico suo con qualunque persona mostrasse disprezzo o avversione per lui.
Ora nel nebbioso Barrio di Briggio e nella luminosa Villareal quasi non v'era chi amasse Dreiser Cazzaniga. Dreiser Cazzaniga era suo malgrado un testimone della libertá e un certo indomabile amore, ancora oscuro e minacciato da altri istinti misti al peccato lo rendevano eccentrico e minaccioso, Come tale cioè era percepito. Non vi fu occulto nemico di Dreiser Cazzaniga che non ricevesse occulta solidarietá dall'oscuro Beaumont la cui culla stava nel Barrio di Briggio. Al Barrio di Briggio egli apparteneva nebbioso e torbido come la valle di Briggio come il suo antico fiume ignorato come le sue sporche, trascurate, industriali rovine. Dreiser Cazzaniga non apparteneva a Briggio, solo il caso volle ch'egli vi trascorresse la prima infanzia, per Dreiser Cazzaniga sempre Briggio restó un orizzonte geografico e architettonico, luce, autunno, nebbia, castagne, mosto, cinghiali, I suoi abitanti erano come ombre, come grigi profili sudici e opachi, Beaumont apparteneva a Briggio in corpo e anima e per questo doveva costantemente tradire Dreiser Cazzaniga. Dreiser Cazzaniga viveva nella vergogna e nell'ignominia e per questo tali tradimenti soleva perdonare.
Molti anni sono passati da allora, Dreiser Cazzaniga trovó infine la dignitá di allontanare da sé la querula ombra minacciosa di Beaumont. Questi, d'altra parte volse i suoi passi alle lontane sierre e lande patagoniche e qui si sarebbe potuto porre il punto finale alla molesta storia di un altro fallimento di Dreiser Cazzaniga sul piano delle relazioni umane. Il fato volle, peró che Dreiser Cazzaniga fosse avvertito dall'amico suo Spadaro di una lettera che Beaumont aveva intenzione di inviargli nella sua Andalusia. Lettera che aveva per scopo di riannodare una amistá che invero Beaumont non aveva mai considerato finita. Voleva continuare a infierire sul groppone del povero Dreiser Cazzaniga! Dreiser Cazzaniga aspettó a lungo la lettera con la ferma intenzione di bruciarla senza leggerla. La lettera noin giungeva, Il sogno di Dreiser si faceva ogni giorno piú fermo e ardente, arricchivasi di nuovi cavallereschi particolari. La lettera non giungeva. Dreiser giounse, invece al punto di desiderarer che la lettera non desiderata giungesse per poter provare a se stesso che si era liberato di Beaumont e di Briggio e di Villareal. Non giungendo bruciava dentro di sé di ossessiva aspettativa. A tanto giunse l'ansia dell'attesa che si accorse infine con orrore di essere ancora in potere di Beaumont e della propria miseria. Non gli passó per la mente giá indebolita il pensiero di gettarsi scalzo ai piedi della Vergine Della Fuensanta nella sua salita al Monte Sacro avvolta nelle mantiglie, d'oro ricoperta tra le carole e le odi dei gitani per impetrare il suo aiuto. Soffrí e arse tutto quell'autunno penetrato dal sentimento della sua inconsistenza. Dreiser meschino. La lettera non giunse. Egli morto dorme nella sierra dove ancora aleggia lo spirito dei puri sufi. La lettera continua il suo viaggio. Non giungerá a colui cui era destinata. Beaumont sempre vive, ora nella lieta Campania spensierato bove pascola le sue insicurezze.
Se la sua missiva giungerá saró io, genseki, l'umile servo a bruciarla nell'inecenso come Dreiser lo volle.

A cura di genseki

Fede e dubbio

Credo che Sainte-Beuve abbia scritto da qualche parte che Chateaubriand era un libertino epicureo con una immaginazione cattolica. Certo doveva essere un arrogante. Tuttavia l'accusa di incoerenza che sembra suggerire Sainte-Beuve o chi per lui è tristemente fuori luogo. Esagerando come si suole fare nello stile aforismatico si potrebbe dire che solo chi possiede un vero, profondo e coerente immaginario cattolico puó essere un vero libertino. Chateaubriand ha un compagno piú cosciente anche se altrettanto arrogante nel Marchese Di Bradomín che come tutti sanno si autodefiniva un “Don Juan feo cátolico y sentimental” dove la molteplicitá delle relazioni contradditorie possibili tra i termini costituisce un vero e proprio tessuto d'una insospettabile coerenza.
La fede non è morale. La fede è immorale. La fede non è certezza, piuttosto dubbio. La fede è inseparabile dal dubbio piú disperato.
Queste righe di Chateaubriand dalle “Mémoires d'Outre-Tombe” sono il Dostoyeskij possibile nello stile impero:

“Siccome ho parlato delle cerimonie funebri che si ripeterono con tanta frequenza, vi descriveró l'incubo che mi opprimeva, quando, la sera, alla fine della cerimonia, passeggiavo nella penombra della basilica, che io pensassi alla vanitá delle cose umane tra quelle tombe in rovina è cosa del tutto normale: morale volgare, inseparabile dallo scenario di un tale spettacolo. Il mio spirito, tuttavia, andava oltre. Penetravo nella natura umana. Tutto è vuoto e assenza nella regione dei sepolcri? Non vi è nulla in tale nulla? Non vi è esistenza nel niente dei pensieri della polvere? Queste ossa forse non hanno una vita ignota? Chi conosce le passioni, i piaceri, gli amplessi dei morti? Le cose che hanno sognato, creduto, sperato sono forse come loro pure idee, naufragate con loro? Sogni, futuro, gioie, dolori, libertá e schiavitú, potere e debolezza, crimini e virtú, onori e infamie, ricchezze e miserie, talenti, genio, intelligenze, glorie, illusioni, amori, non siete che percezioni di un momento, trascorse con i crani spezzati in cui nacquero, con il petto annientato ove un tempo pulsó un cuore? Nel vostro silenzio, o tombe, se tombe, invero, siete solo s'ode un riso sardonico de eterno? Questo riso è Dio stesso, la sola ironica realtá destinata a sopravvivere all'intero universo? Chiudiamo gli occhi; riempiamo l'anima che dispera della vita con queste grandi parole del martire: “Sono cristiano”.
Mémoire d'outre-tombe
Terza parte – Libro III
Trad. genseki

La certezza pare piuttosto cemento del dubbio che della fede

genseki

giovedì, settembre 02, 2010

Il tempo e lo spirito

Certo ora che l'orizzonte sembra tanto oscuro da non permettere la percezione della prospettiva, da far dubitare che prospettiva ci sia, che un futuro sia possibile al di fuori della menzogna, dell'odio, della meschinitá della democrazia, delle sue guerre, dei suoi stermini, dello sfruttamento della cancellazione della memoria, della natura, della negativitá e deli divenire il testo di Hegel tratto dall'Introduzione alla storia della filosofia ci ricorda come la nostra prospettiva. la prospettiva possibile dal balconcino della nostra vita individuale sia tanto ristretta da non giustificare la disperazione.
La dialettica gramsciana tra pessimismo, ragione, volontá e ottimismo è qui sciolta, semplicemente tolta nell'assunzione della pazienza.


Il punto di vista attuale è il risultato di tutto il corso e di tutto il lavoro di 2300 anni: è ciò che lo spirito dal mondo ha raggiunto nella coscienza pensante. Non dobbiamo stupirci per la sua lentezza. Lo spirito universale pensante ha tempo, nulla lo induce alla fretta, dispone di una moltitudine di popoli, di nazioni il cui sviluppo o evoluzione è appunto un mezzo per la produzione della sua coscienza. … Nella storiauniversale i progressi sono lenti. La comprensione della necessitá di questo lungo tempo è un mezzo contro la nostra propria impazienza.
Hegel
Introduzione allo storia della filosofia
Trad. genseki