lunedì, maggio 31, 2010

Sul ricordo

Sul ricordo

Il testo precedente di Hamann, il mago del Nord, mi ha richiamato alla memoria quello celebre di Bordiga: la societá futura influisce giá su quella presente. Sorprendente concordanza tra l'antirazionalista Hamann e il rigoroso dialettico. O forse sorprendente neppure tanto, forse un'ulteriore conferma nell'involontaria e segreta vena gnostica dell'ingegnere napoletano.
Per quanto riguarda la fenomenologia del ricordo, ebbene il ricordo è in relazione con il futuro nella forma piú semplice de inmediatamente evidente: chi non ha futuro non ha nemmeno ricordi. Sospetto, pur non avendo mai potuto sperimentare uno stato simile che anche chi non abbia assolutamente piú speranza non abbia nemmeno piú ricordi. Il ricordo, poi, come oggetto del ricordare si dispiega da un passato a un futuro: quello che non ricordo oggi, forse lo ricorderó domani. Ricordare è qualche cosa che ha uno svolgimento temporale lineare. Vi è una modalitá del ricordare che seleziona i ricordi in funzione del futuro, sperato, desiderato o anche piú spesso temuto. Se il ricordo ha bisogno del futuro e se ove non vi è futuro nemmeno vi è ricordo è altresí vero che l'universo del ricordo si ampia nella misura in cui il futuro si assottiglia. Nella nostra vecchiaia regnamo su un vasto impero di ricordi, in esso ci rifugiamo, troviamo protezione e di esso godiamo riposandoci in esso delle fatiche dell'aver vissuto. Il limite del minimo futuro è quello della maggior estensione del ricordo, ma quando non vi è piú futuro nemmeno vi è piú ricordo.
genseki

Hamann

Il futuro determina il passato

Come si puó pretendere di avere un concetto adeguado del presente senza sapere del futuro? Il futuro determina il presente e questo determina il passato, cosí come l'intenzione determina la natura e l'uso dei mezzi.

Hamann
Trad genseki

Jean Paul


Jean Paul

Il ricordo

Precisamente per questa ragione, tutta la vita ricordata brilla come un pianeta nel cielo, cioé la fantasia integra le sue parti in un tutto sereno e concluso, Allo stesso modo avrebbe potuto costruire una totalitá torbida, ma i castelli in aria pieni di camere di tortura la fantasia pereferisce situarli nel futuro soltamto, come i Belvedere soltanto nel passato. A differenza di Orfeo, otteniamo la nostra Euridice volgendo lo sguardo indietro e la perdiamo se guardiamo davanti.

Jean Paul
Introduzione all'estetica
trad, genseki

domenica, maggio 30, 2010

La lontananza

Vi sono due tipi almeno di lontananza: una è la lontananza che è tale in assoluto e può essere definita, per esempio dalla distanza geografica, oppure dalla separazione emotiva o dalle due insieme. Questa è la forma falsa della lontananza, una lontanza astratta, paralitica, infeconda, incompleta, aliena alla sua propria pienezza, incapace di compiersi come tale. Vi è poi una lontananza che è tale solo in quanto contiene in se la vicinanza, la prossimità, che l'avvolge quasi a proteggerla, che la custodisce nella sua intimità. È la vera lontananza, quella che costituisce come madre della prossimitá, che permette alla prossimitá di riconoscersi come tale. Che la porta alla luce, insomma. Nessuno puó essere davvero lontano da qualche cosa di cui non sia assolutamente prossimo. Prossimo nel ricordo, nel desiderio, nell'odio, nella nostalgia, ma prossimo, Proprio attraverso la lontananza ciscuno so riconosce prossimo di qualche cosa nelle diverse modalitá possibili di prossimitá. È il movimento di allontanmarsi che apre lo spazio ovattato della prossimitá in cui accovaciarsi ascoltando i propri cuori, i propri duplici fiati,

genseki

L'evocazione di Dreiser Cazzaniga

Le note e le pagine che Dreiser Cazzaniga ci ha lasciato raccolte nella rubrica delle sue memorie sono destinate a un lettore, un lettore particolare cioé un tipo particolare di lettore ma anche un lettore concreto che viene poco a poco evocato nel testo fino a prendere la forma del Curatore. In questo senso Genseki è una evocazione, se non una creazione di Dreiser Cazzaniga, L'attaccamento all'insuccesso, quando non direttamente alla disfatta che caratterizza la vita e l'opera di Dreiser Cazzaniga non gli consentiva di sperare di poter trovare un lettore empirico delle sue memorie, se non vi è lettore empirico, se manca il destinatario concreto è l'autore stesso che puó evocare un tipo di lettore che giunga ad essere il lettore, il Destinatario. Cercando di realizzare questa idea Dreiser Cazzaniga la sviluppó fino a evocare la figura di Genseki, il Curatore. Genseki è quindi un personaggio delle memorie di Dreiser Cazzaniga, forse è un po' pretenzioso definirlo un personaggio, ma insomma qualche cosa di molto simile a un personaggio anche senza i contorni ben definiti di un vero personaggio e come quasi-personaggio svolge il ruolo di Curatore. Proprio come Curatore delle memorie di Dreiser Cazzaniga Genseki è in una certa misura l'autore di Dreiser Cazzaniga. È lui che sceglie e assembla i materiali lasciati da Dreiser Cazzaniga e li propone in forma narrativa. Dreiser Cazzaniga in cerca di un lettore finisce cosí per creare egli stesso il proprio autore.
Qual è, tuttavia, la natura del materiale che Genseki assembla per costruire l'immagine che Dreiser Cazzaniga desidera prenda forma di se stesso? Da un punto di vista strettamente materiale, abbiamo visto, si tratta di una variegata congerie di testi su differenti supporti cartacei piú o meno ortodossi, tutti coloro che lo conobbero sanno come Dreiser Cazzaniga, ossessionato dall'esigenza di una vita austera e in qulache caso francamente avaro fossr solito raccogliere volantini pubblicitari per utilizzarne la parte posteriore. Con tali volantini assemblava veri e propri quaderni su cui copiava poi le su note. Dal punto di vista del contenuto si tratta invece di ricordi,
le Memorie di Dreiser Cazzaniga non sono quindi un testo narrativo, i ricordi non si possono raccontare, pensva Dreiser Cazzaniga, solo si possono costruire, combinare, organizzare e in qualche caso anche percorrere ma non raccontare. Il racconto dei ricordi ha solo in apparenza una forma narrativa.

mercoledì, maggio 26, 2010

Il grande animale

a Edoardo Sanguineti

Su questo nastro di Moebius a cui è stato laminato
Il nostro orizzonte percettivo
Nessun foglio possiamo nemmeno piú voltare
Tutti i fogli hanno una faccia sola
E anche quella sola infinita
Che comincia e sempre termina in un supermercato cinese
Dove gl impiegati sudano soia
Che macchia le camicie di terital proprio sotto l'ascella
E tanti cristi ballano con il cuore fosforescente
Strettamente serrato nella mano
Invano cerchiamo di sollevare qualche cosa per guardarci sotto
Nemmeno lo zerbino ha un sotto dove nascondere la polvere
Pascoliamo in questo prato di moplen
Con un fiore finto nella mano.

genseki

Da Purgatorio dell'Inferno

questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro: e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente

Edoardo Sanguineti

Di quante altre vite

Di quante altre vite crepitando a capofitto
Con il casco da motociclista e l'olio d'oliva restato troppo a lumgo al sole
Di quante altre vite cone le dita dei piedi divaricate
La crema solare le spiagge di ceramica l'azzurro delle camicie
Le nuvole pareveano camicie di altra biancheria gocciolando
Sul selciato e la pescheria con i suoi riflessi di rose sul ghiaccio
Di quante altre vite questo infrangersi di ricordi,
Chicchi di ricordi, grandine di ricordi, ghiaia di ricordi
Su cui distratta passeggia la mente come su un tappeto regale
Un re smemorato nudo come solo un re
Come un bambino che getta manciate di ricordi contro il sole cieco
Contro il sole che come una lucertola percorre il muro del cielo
E perde la coda sfibrata in raggi e raggi
Su questo spolverio di ricorsi triturando fino a quell'insegna
Fino al feltro al faggio al prato marcio d'acqua
Al come strisciava i piedi sulla corriera numero trentaqauttro
Ricordi sempre minuziosi le amiche che stendono ilari
Camicie ai fili che vanno da collina a collina le loro dita bianche
O ti sfiorassero appena, ricordo pulviscolo la bambina
Sporge dal pozzo con tutta la testa
Era caduta nel mondo nero mentre correva nel campo di segale
La terra cosí grassa fuma
Di quante altre vite come lucertole tra le rose come la serpe
Al bordo dello stagno quando la stagno è occhio
Come la serpe e la lucertola in una danza geometrica
Attorno a quello che resta del sole senza

genseki

martedì, maggio 25, 2010

L'ombrello di Dreiser Cazzaniga


Il matrimonio di Lydia Rosino II


Il primo appuntamento di Dreiser Cazzaniga con Lydia Rosino ebbe luogo in un autunno agonizzante sulle sporche colline di Cairuan, Dreiser Cazzaniga, in un momento di disperata solitudine, dopo aver sfogliato malinconicamente la piccola agenda del telefono, la chiamó per comunicarle come, grazie al suo successo in una prova di concorso, aveva conseguito uscire dall'interinitá e divenire titolare di una piccola prebenda, cosa alla quale la bella Lydia Rosino aspirava con tutte le sue povere forze: la titolaritá di una prebenda vitalizia; da parte di Dreiser Cazzaniga si trattava, invero, di un meschina soddisfazione alla sua vanitá, egli non era in grado di calcolare le conseguenze del suo gesto, sull'anima infreddolita della povera Lydia Rosino. Con una certa sorpresa registró come la bella Lydia Rosino gli proponeva un appuntamento nel borgo sporco di Cairuan, dove ella viveva, per una passeggiata sulle colline sporche dei dintorni tra le rovine dell'estremo autunno. Dreiser Cazzaniga si recó all'appuntamento con un basco di renna di origine lappone a quattro spicchi che aveva comprato a un mercato dell'usato di Berlino per un marco; una casacca da taglialegna dell'Oregon, pantaloni di fustagno da carrettiere della Langa e anfibi militari. I lunghi capelli uniti in una coda sulla nuca con un vezzoso nastro elastico. Lydia Rosino lo condusse in una lunga passeggiata durante la quale evitó con somma attenzione qualsiasi possibilitá di attraversare luoghi in cui si corresse anche solo il minimo rischio di incrociare esseri umani. Ella andava raccontandogli la sua vita di umiliazioni, di levatacce e di duro lavoro, di come il boia avesse finito per costringerla ad interrompere una relazione che ella giudicava insopportabile, di come il medesimo carnefice, stupefatto della sua decisione continuasse a perseguitarla bombardandola di telefonata e seguendola con la macchina. A una svolta del sentiero, in una radura che digradava verso un ceduo grigio tra l'erba marcia di pioggia si apriva un prato pieno di mazze di tamburo, cioè del fungo scientificamente noto come macrolepiota procera. Dreiser Cazzaniga non ne aveva mai viste di tanto grandi tutte insieme radunate. Pervano una flotta stellare di alieni benigni. Lydia Rosino diffidava dei funghi, cominció a raccontare storie di avvelenamenti e crudeli agonie che i buoni borghigiani cairuanesi si tramandavano di padre in figlio da generazioni. Dreiser Cazzaniga si mise a raccogliere quelle meravigliose fragili medadaglie bianche dal profumo di fumo e di cedro, signore dell'autunno al ballo di gala della putrefazione. Una era tanto bella che, per gioco, Dreiser Cazzaniga la portó via come fosse un ombrello: appoggiata alla spalla, Quando giunsero al borgo Lydia Rosino era terrorizzata. Gettava cautamente intorno sgurdi smarriti, Dreiser Cazzaniga insistette per finire l'incontro davanti a una cervogia tiepida e burrosa, Entrando nella caupona ella pareva scusarsi con tutti con uno sguardo ora umile ora sprezzante. Dreiser Cazzaniga non ci capiva niente.
a cura di genseki

giovedì, maggio 20, 2010

Amor topografico

A Lu Spadaro

Quando finalmente decise di spogliarsi – lei -
Cinquant'anni erano ormai trascorsi, anno più anno meno,
Con tutto il loro corteo di affanni e di biancheria sul ballatoio
Ne aveva portato mastelli interi e tutti quei marmocchi
Che davano la caccia alle lumache dei gerani per calmare la fame!
Comunque fu nuda, alla fine, davanti a lui perdiana!
Ora aveva chiara finalmente la geografia che aveva ossessionato
La sua calligrafia
Tutti i caratteri vena per vena, fino al boschetto dello zio Damiano
Dove mormorava la fonte e solevano andara a bere quel vinello verde
Di sambuco
I singhiozzi delle varici, le praterie e gli altipiani della nuca,
E tutti gli altri canyon con i loro poveri idioletti
La percorreva adesso, con il vecchio sestante era in grado
Di ritrovare la latitudine di ognuno dei suoi pori
Ma il profumo di pelle della pelle il profumo
Della terra dopo la pioggia, insomma,
Sorgeva tra di loro come un altro corpo ancora
Non avrebbe potuto abbracciarla, no, non così, non cosí
E poi lei aveva i piedi
Laggiú infondo alle gambe, in fondo, che viaggio
Per Ande e tendini fino ai piedi
Così lontani dall'anima: i piedi
Così insostenibilmente mortali.

genseki

martedì, maggio 18, 2010

Edoardo Sanguineti

Ballata delle donne

Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia.

Quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace.

Quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire.

Perché la donna non è cielo, è terra
carne di terra che non vuole guerra:
è questa terra, che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente.

Femmina penso, se penso l'umano
la mia compagna, ti prendo per mano.

Ricordo

Non cedettero nemmeno quando fu piú prossimo l'evento,
Il sogno, lo schianto, insomma il tormento del vecchio
Che non ci si raccapezzava più tra tutto quell'alloro sparso
Il parco soffritto la terracotta che sapeva di pomodoro
Del pomodoro della sua gioventú, succulento, denso, mestruale
Ogni mese finiva per scuoterlo un nuovo ricordo, un nuovo frutto
Un'erba che ricordava di aver salutato al margine di una cunetta
Erano tutte sue le escursioni di una volta
Novembre a capofitto cadendo sul mare dalle colline putride di nebbia
Il mosto, l'affitto di quelle quattro stanze che puzzavano d'umido
Di castagne stantie
E ancora piú indietro il cerchio rosso del gotto di vino
Sul tavolo di legno dell'osteria dove tutti cantavano l'internazionale
Cercando di non pensare alle biciclette che avevan lasciato nel cortile
All'odore del lubrificante al profumo del sapone potassico.
I rubinetti avevano sempre macchie di verderame
Le pareti dei cessi mappe magiche di continenti di muffa e crepe
Il quotidiano fragrante adempiva tutte quelle su povere funzioni
No non cedettero no fino allo schianto
Allo schiaffo
E tutte quelle uova rotte sul pavimento tra i trucioli di segatura rossa
Che perna
Per il vecchio
Nessuno avrebbe piú potuto toglierglielo: il ricordo.

Gaetano Mezzasomá

Gaetano Mezzasomá

Le ricerche di Gaetano Mezzasomá si svolsero per decenni nella porzione di territorio montuoso compreso tra i borghi di Cavendole, Groggia, Grottasparata e Siriale. Potremmo definire la disciplina da lui fondata e che non ebbe praticamente continuatori di un qualche rilievo come una sorta di archeologia del significante o di psicanalisi della fonetica del territorio. I frutti della sua decennale attivitá di investigazione furono riuniti nell'opera monumentale “Sciré”, Si tratta di forme linguistiche che precedono il corpo che esprimono la pura costatazione dell'esserci del linguaggio. Non si deve dimenticare che una delle grandi passioni di Mezzasomá fu la micologia e che la sua altra debolezza scientifica fu la toponomastica, Il linguaggio dissemina le sue spore sonore molto prima che queste si nutrano di un senso, fatte tessuto e organismo. Il suono è il suono della terra, della vita biologica, delle forme metereologiche e geologiche del mondo. Il significante sibila sull'erba, molto prima che il senso pulsi al suo interno, molto prima che un corpo secerna un senso,
L'ascolto di Gaetano Mezzasomá capta la meraviglia del significante che fermenta nel mondo e ce lo porge con garbo e freschezza, in massime, metafore e canti.

gensek

Sulla vecchiaia

C'è un detto che suona cosí, quando si spengono le luci, allora si vede se la candela era di sego o di cera, in tal senso, neppure la vecchiaia è colpevole del fatto che sia deforme colui che invecchia, Ci furono societá che, a differenza dell'attuale societá borghese in decadenza non avevano paura di fissare in faccia la fine, possedevano e consideravano la vecchiaia come un frutto ricco di polpa, qualche cosa che vale la pena desiderare, qualche cosa di sano. Questo accadeva per esempio nel consiglio deglia anziani di Sparta, nel Senato della Roma repubblicana e in modo speciale nella nuova esperienza socialista. Ció che qui spesso si ode è qualche cosa di diverso da un destino al tramonto, qualche cosa di piú significativo de: “L'onore e questo volto invecchiato”; il fatto è che una spocietá fiorente a differenza di una societá condannata non vede con timore nel suo proprio riflesso la vecchiaia, al contrario vede negli anziani le proprie vette. Come ogni tappa vitale anteriore, la vecchiaia mostra un guadagno possibile e specifico, un guadagno che compensa il congedo dalle etá lasciate alle spalle. Invecchiare, quindi, non significa soltanto una tappa desiderabile della vita, in cui si è vissuto molto e in cui, alla fine si puó sperimentare ancora tutto il possibile. Invecchiare puó anche significare come situazione una immagine gradevole.: lo sguardo che abbraccia e, nel caso, il raccolto. In questo senso Voltaire diceva che per lo stolto la vecchiaia è come l'inverno, mentre per il saggio è la vendemmia o il tino. Essa non esclude la vecchiaia, piuttosto la comprende nella maturitá; l'anelo del ritorno alla gioventú perde il suo carattere doloroso proprio per aver maturato questo contatto con le generazioni che vengono dopo de è compensato, anzi, colmato con la sicurezza ora raggiunta, con la semplicitá e il significato. Gli ultimi anni di una persona conterranno, allora, tanto piú gioventú, e non nel senso mimetico, quanto piú riflessiva, la sua propria gioventú abbia sviluppato; le fasi della vita, allora, e con esse la gioventú, perdono allora i propri limiti rigidi, Il sano ideale del vecchio è quellp di una maturitá compiuta; una maturitá in cui è piú facile dare che ricevere.

Ernst Bloch
Il principio speranza
Trad. genseki

lunedì, maggio 17, 2010

Dreiser Cazzaniga e Cristo

Le relazioni di Dreiser Cazzaniga con Cristo sono di difficile definizione, Basandoci sulle sue memorie possiamo con sicurezza affermare che il suo primo incontro con Cristo fu una delle cose piú terribili che egli ricorda delle sua infanzia. L'altra cosa terribile, forse anche piú terribile che emerge dal magma primordiale dei suoi ricordi di Urkind è il grembiulino bianco impregnato del sangue del piccolo Bino, quando nell'asilo umido e sporco delle monache gli rovinò in testa lo scaffale delle pignatte. Dreiser Cazzaniga ricordó per tutta la vita il sangue rosso sul grembiule bianco, e la cosa peggiore, quella che proprio non poteva cancellare era che il grembiule non era propriamente bianco. Avrebbe dovuto essere bianco, in realtá era sporco, un poco giallastro e non era di vera stoffa ma di una specie di tela cerata che coperta di muffa giallastra e di sangue stinto assumeva un aspetto mucoso. Cristo invece lo minacciava dalla cappella oscura che si trovava alla sua destra, dall'altro lato della navata, un pò più indietro del punto ove era solito sedersi con suo padre per assistere alla messa delle sei. Nascosto tra i gigli, nell'oscuritá, il grande corpo grigiastro e sanguinoso pendeva con lo sguardo spento appena dietro la sua spalla, Il piccolo Dreiser Cazzaniga non osava voltarsi per guardarlo, ma non poteva dimenticare che lui, invece lo fissava, con quel suo sguardo freddo, grondante dello stesso sangue di Bino, ma grigio, il suo, adesivo, minaccioso, doloroso, La minaccia obliqua che pendeva alle sue spalle era per il povero Dreiser Cazzaniga la minaccia alla sua stessa consistenza come soggetto, Quell'indicibile obliquo minacciava di disgregarlo per sempre se solo si fosse voltato, Allora non si voltava ma la tentazione era irresistibile, cercava rifugio nelle calde grotte primordiali del suo immaginario ancora biologico, respirava l'odore dell'incenso, della muffa, dell'olio stantio con cui il sacrestano, soleva lucidare il legno delle panche dell'aristocrazia in cui aveva l'abitudine di sedere il padre di Dreiser Cazzaniga da quando, l'aristocrazia del barrio non frequentava piú la messa che si era fatta un rito minacciosamente e imprevedibilmente rivoluzionario, con tutte quelle chitarre, l'incenso californiano, i papaveri al posto delle rose i gins che sottolineavo i culi delicati delle coriste che andavano sbocciando nel mese mariano. Il mese in cui sbocciavano anche i giovani seni. E questo era troppo per l'aristocrazia che apprezzava culi e seni nell'alcova ma pretedeva castigati veli alla soglia del sacro. Qualche aristocratico finiva per presentarsi, infine, alla messa e allora litigava con il padre di Dreiser Cazzaniga che considerava l'occupazione della sua panca come una personale presa della Bastiglia.
Per tutto il cammino verso casa, il Cristo grigio continuava a penzolare minaccioso sulla spalla di Dreiser Cazzaniga e accettava di scomparire soltanto dopo che egli, inginocchiato sul letto aveva recitato la sua preghiera all'angelo custode che era un personaggio molto piú rassicurante anche se assai poco corposo, non abbastanza denso per occupare un posto significativo nel foro immaginario della sua mente infantile. Cristo veniva di notte a mordergli gli alluci sotto forma di un gallo dorato. Credo che lo incontró anche come mal di denti. In ogni caso ogni contatto con Cristo era da lui vissuto come un pericolo, come una minaccia alla propria soliditá, anche il più insignificante pensiero poteva delatarlo e frantumarlo di fronte a questa sanguinosa presenza
Diventava di colpo così fragile, si occultava a sé stesso, si mentiva, si negava e si riaffermava dissimulatamente, Un vero incubo. Piú tardi i suoi contatti con questa penosa figura cominciarono a provvocargli vere e proprie erezioni, che lui non sapeva bene che cosa fossero ma che sperimentava come qualche cosa di profondamente disdicevole, di riprovevole. Un'altra minaccia per la sua trepida integritá.
Poi nell'adolescenza gli fu presentato questo altro Cristo biondo in gins e con i sandali. Dreiser Cazzaniga odiava i sandali, soprattutto quelli che lasciavano libero il ditone, Il Cristo biondo in gins e con i capelli lunghi poi rischiava di provvocare ancora erezioni, giacché per le coincidenze della moda Dreiser Cazzaniga era stato precocemente a reagire ormonalmente di fronte a corpi serrati in gins con scarpe di tela Suprema e calzettine di cotone bianche. Ricominció ad odiare la volgaritá puzzolente e polverosa, impudicamente ostentata in quei sandali osceni e questo compromise per sempre le sue possibilitá di essere seriamente cristiano. Le cose migliorarono un po' quando verso la fine dell'adolescenza, in una cittá siderurgica renana, dai cieli cromati e dalle vie astrattamente commerciali, poté leggere il Vangelo di Giovanni nella traduzione di Lutero, sì con il Verbo era tutta un'altra cosa, se lo sentiva in bocca come la saliva. Cristo lo aveva separato dal suo corpo, si era malignamente insinuato tra lui e il suo corpo e aveva rotto l'intimitá e il tepore, Il Verbo era il prezzo di quella separazione, la ricompensa a tutto il freddo patito là fuori. Il Verbo non aveva ditoni, non portava i sandali, fluiva nel corpo e lo nominava tutto intero. Poi conobbe Paolo di Tarso e la sua cecitá, Quella si che la comprendeva, la cecitá luminosa che annientava il Cristo grigio e minaccioso acquattato tra i gigli, la fede che non aveva bisogno di quel maledetto capellone slavato in gins. La fede senza le maledette chitarre di maggio. Molti anni tardó a incontrare sul suo cammino la Beata Vergine. La incontró poi come il balsamo delle sue articolazioni dolorose, come la dolcezza avvolta nel manto stesso del rosario. La incontrò come rugiada e conforto d'abbandono, e subito la tradí e la rinnegó e poi le chiese perdono e tornó a rinnegarla e la incontrerá forse solo poi alla sogli luminosa della sua estinzione come Prajna Paramita. Che i suoi peccati gli siano perdonati.
A cura di genseki