lunedì, maggio 25, 2009

Straccioni

Il gelo
sopporto
che fammi torto
.

La canzon del Balurdo


Dai sistematevi che ci si scalda! Ci manca solo che vi mettiate a montare il fuoco. -- Che strano, le gambe adesso mi formicolano.

-L'una! - tramontana bella secca! – ma lo sapete voi, gattacci spellacchiati perché la luna è tanto chiara? è che ci bruciano le corna dei becchi, ci bruciano.

- Come è rossa la brace torbiera!
Come danza la fiamma azzurra sui tizzoni!
Ehi chi è la lingera che ha picchiato la baldracca?

C'ho il naso gelato! - C'ho le chiappe arrostite! - Che ci vedi nel fuoco Ciupiglia? - - Una alabarda. - E tu, Giampollo? - Un occhio.

Largo, largo a M. de la Chosserie! - Eccovi ben bene impellicciato e inguantato per l'inverno, Signo procuratore!
- Eh, giá i bei micioni non c'hanno i geloni!

Ah eccoli qua i signori birri! Gli stivali vi van fumando! - E i bricconi maramaldi?
Due li abbiamo stesi d'una archibugiata, gli altri son fuggiti di la dal fiume.

Così si incanaglivano a un fuoco di sterpaglie, due straccioni, un procuratore del parlamento che se en andava per bordelli con due birraccii che raccontavano senza scoppiare a ridere le imprese di loro sconquassati archibugi.

A. Bertrand
Gaspard de la Nuit
trad. genseki

domenica, maggio 24, 2009

Stampede

Furono le sue parole
Che decisero di smascherarlo
Stanche come erano di essere ripetute
Sulle pagine di quei testi -Poesie?-
Da uno che avrebbe potuto essere un glorioso vagabondo
Un alcolizzato immaginario
Un distillatore di depressione
Un alchimista degli influssi neutrali
Un cercatore di gioielli
Nelle profonditá delle scollature delle dame
Specialmente quando andavano di moda
I nei artificiali
Che doveva essere un bel problema piazzarli
Proprio li dove sarebbero stati davvero seducenti
E questo punto variava da cicisbeo a cisisbeo
E da abate a stalliere.
E digitate digitate digitate
Digitate senza costrutto
Infinitamente
Dopo che il disgraziato aveva aperto la bottiglia
dell'indecenza
E lasciava che evaporassero tutti i freni
Inibitori
dell'opprtunitá
E sfregava l'ipotalamo come se fosse di pomice
Furono le sue parole
Proprio loro a perderlo
A denunciarlo mentre piangeva
A esporlo alla gogna
A condannarlo al taglio di un testicolo
Una volta fuggite dal recinto
In uno stampede gallinaceo
E ora sta li a capo chino
In ginocchio tra questi mulinelli di piume
e le trombette di carnevale
Sta li senza parole
Sognando lo zucchero filato.

genseki

venerdì, maggio 22, 2009

Yoyo

Piú non ci incontreremo in questa primavera
Quando la prima volta ho visto i biancospini
Spogliarsi nei calanchi e latte di letizia
Stillarti dai capezzoli
Fazzoletto di miele a stringere i capelli
Neri ala di corvo io fumavo gauloise
Lo yoyo che giocavo nella mano sinistra
Piú non vuol risalire lungo il filo del tempo
La collana di lune sgranate in riva al Tanaro
La dono alla madonna che ride tra le mele

genseki

Variazioni su di un tema di Rimbaud III

Variazioni su un tema di Rimbaud III

L'indigestione del lupo
Aveva lascoato tracce
Ovunque nell'orto
La barbabietola aspettava di essere raccolta
con la maggiorana
E muggiva di dolore mogio
Le piume del pollame volavano tra i carciofi
E i piselli si ostinavano a tessere da parola
A parola la loro croccante catena di perline
Il lupo aveva sognato palle da bowling
Quella notte
un brodo rugginoso che colava dalle foglie del
Cardo
Con il loro caratteristico odore di pneumatici
Bruciati
Che ti restava tra le dita
Il lupo pensava di avere una palla da bowling
Nella pancia

E continuava a sputare piume
E la corona di spine madida di sangue
Si inclinava fino a sforargli l'orbita
Dell'occhio sinistro
Nel festno bimillenario della passione

genseki

giovedì, maggio 21, 2009

L'amore sbocciava intorno a noi

L'amore sbocciava intorno a noi
Si schiudeva, germinava, cresceva
Brontolava di clorofilla e linfa
S'intrecciava agli altri tronchi
Con un tale slancio vegetale
Che mi mettevo a brucare
A gattoni in questo ribollire di pollini
E il sole finiva per scaldarmi la schiena
E adormentarmi nell'odore verde
Del letame e dei fichi lasciati
A imputridire nello zolfo

mercoledì, maggio 20, 2009

La neve degli ultimi inverni

La neve degli ultimi inverni
Cadeva sporca di sangue
Le estati come vecchi tappeti
Restavano arrotolate in un angolo
Il nostro teatro stentoreo
Taceva tra il latte e le stelle
Alle fronti solo era fresca
La terra fradicia delle zolle.

genseki

Elitre e altra sete

Ratte sfibrano le elitre
I raggi taglienti del palmizio
la sua geometria che segnala
Il vertice al linguaggio delle api
La terra si impregna di sale
Di sodio va ardendo in polveri
Di calce di iodio
I fiori dell'aglio alieni
Trasmettono l'uno all'altro
Il codice segreto della sete.

genseki

martedì, maggio 19, 2009

MARIO BENEDETTI II

Mario Benedetti

Mario Benedetti godeva di una larga popolaritá qui in Spagna dove rappesentava quello che in Italia ha rappresentato Prévert e in misura minore Ferlinghetti, una poesia realmente popolare e di alta qualitá letteraria. Una poesia come uno spazio messo a disposizioe della societá per riflettere e abbandonarsi un momento alla molteplicitá che davvero la realtá è in grado di offrire.

Una poesia colloquiale e ricca di elenchi e di liste.

Una poesia cocciutamente convinta della dignitá deñña parola, di ogni parola e delle parole di tutti.

La morte lo ha finalmente reso quello che era, differente e semplice, la morte che scolpisce per sempre l'individualitá sullo sfondo della sua definitiva impossibilitá.

genseki


Mario Benedetti


Imbarazzato panegirico della morte


La giornalista mi chiese
Se credessi nell'aldilá
Gli dissi di no
E lei mi domandó
Se questo non mi angustiava
E io le dissi di si


Ma che comunque forse
Certe volte la vita
Causa angoscia maggiore
Della morte


Perché le vessazioni
O anche solo i caprici
Finiscono per metterci
In compartimenti stagni


Ci separano gli odi
Le discriminazioni
I conti correnti
Il colore della pelle
L'affermazione o il rifiuto
Di Dio.


Invece la morte
Non fa distinzioni
Ci mette tutti nello stesso sacco
Ricchi e poveri
Sudditi e re
Miserabil e potenti
Indiani e visi pallidi
Iberici e immigrati
Credenti e agnostici


Riconosciamo che la morte fa sempre
Una giusta distribuzione del nulla
Senza plusvalore nè offerte nè domande
Egualitaria e equanime
Si occupa di ogni vemiciattolo
Secondo le sue necessitá
Neutra e equanime
Accoglie con la stessa disponobilita zelante
I cadaveri sontuosi di estrema destra
E i periti di inedia


La morte è eccletica, pluralista sociale
Distributiva, incorrutibile
E continuerá ad esserlo
A meno che a qualcun
Non venga in mente di privatizzarla.


Mario Benedetti

Inventario II

Trad genseki

lunedì, maggio 18, 2009

Né io né padrone

Che i discepoli non abbiano dubbi:
I loro corpi sono formati da quattro elementi, che non hanno "io" e che non hanno padrone. Essi sanno cosí che questo corpo non ha né "io" né padrone. Il loro spirito è formato da cinque aggregati, che non hano né io né padrone. Essi sanno in questo modo che il loro proprio spirito individule non ha né io né padrone. I sei organi di senso e le sei coscienze nascono e muoiono secondo il modo in cui si associano e per loro vae quanto detto sopra. Poiché queste diciotto sfere psicosensoriali sono vuote tutto è vuoto e solo esiste il nostro spirito fondamentale la cui purzza scaturisce per sempre.

Ci sono due modi di nutrirsi: uno si relaziona con la coscienza ordinaria e l'altro con la saggezza. I morsi della fame sono affezioni ordinarie del corpo composto di quattro elementi, cui si rimedia in modo adeguato, senza desiderio e senza attaccamnto. Questo è il modo di nutrirsi proprio della saggezza. Le preferenze di gusti basati sui capricci, la discriminazione erronea, la ricerca esclusiva el piacere senza mai la minima soddisfazione o il minimo distacco, ecco quella che merita il nome di alimentazione propria della coscienza ordinaria.

Gli uditori giungono all'illuminazione grazie al suono della voce e per questo son detti uditori, essi peró non comprendono il proprio spirito e teorizzano sulla dottrina che la voce esprime.
Grazie a parole magiche, a segni propizi o a movimenti essi apprendono che vi é un Risveglio, un Nirvana e per tre incalcolabili kalpa si esercitano sul cammino di una completa buddhitá. Tutto questo dipende dallla via degli uditori e produce Buddha del livello degli uditori.
Basta tuttavia comprendere direttamente e istantaneamente che il proprio spirito è sempre stato il Buddha per non dover piú trovare nemmeno la piú piccola realtá né doversi piú esercitare nella minima pratica e questa è la via superiore che mena al Buddha dell'autentica quidditá.

Huangpo
trad. a cura di genseki

giovedì, maggio 14, 2009

Limone e artemisia

Fu nella radura tra limoni e jacarandá
Che mi venne raccontando la sua storia
- Sai, quella del Nilo, del cesto di vimini
Della sposa venduta sul mercato dal marito mutilato -.
Quanto duró la sua confessione?
Giorni o settimane?
Mi parlò dei fratelli della purezza
Della panchina ove al vespero il Profeta soleva sedere
Con Fatima.

Bevemmo limone e artemisia

Come soli alimenti del nostro cuore
Nudo

Intorno nel frattempo, poco a poco,
Tutte le cose si adagiavano in pace
Nei loro simboli.


genseki

Storia della calligrafia cinese

Calligrafia dell'Imperatore Taizong


L'Imperatore Taizong dei Tang

Storia della calligrafia cinese

Taizong

Taizong nacque nel 568 e fu imperatore tra il 626 e il 649. Calligrafo eccezionaleè una personalitá centrale nella cultura cinese classica. Creó nella sua corte la carica di Calligrafo Ufficiale e onoró con premi i calligrafi di talento delle cui opere veniva a conoscenza. Svolse un'attivitá intensa sforzandosi di fare della calligrafia un patrimonio "nazionale".Il suo regno segna il passaggio ella calligrafia da arte popolae, una forma di artigianato rafinato al mondo dell'arte ufficialmente riconosciuta.
Effettivamente il Posto di Calligrafo Ufficiale che in cinese antico suona piuttosto "Letterato Calligrafo" inseriva la calligrafia all'interno del sistema dei valori confuciani secondo i quali si organizzava la vita culturale, amministrativa e religiosa dell'Impero.Esisteva una accademia imperiale di Letterai consacrati agli studi confuciani. questa accademia si chiamava "Bosco di pennelli". Fu creata durante la dinastia Tang e restó aperta fino all0avvento della repubblica nel 1911. La sua importanza era tale che disponeva della protezione di un Dio particolare Wenchang. Questo Dio corripondeva a una costellazione la cui minore o maggiore brillantezza era segno del fiorire o del decadere della letteratura. Al dio Wenchang si rivolgevano i canidati ai concorsi pubblici. Wenchang era accompagnato dal Dio Zhuyi patrono dei candidati impreparati e dal Dio Kuixing signore ella graduatorie. La creazione del posto di "Letterato Calligrafo" sognificava quindi permettere l'accesso alle piú alte cariche dello stato per mezzo dello studio e della pratica di questa disciplina e quindi attribuirle un ruolo centrale nella societá e nell'educazione.
Dell'Imperatore Taizong ci è giunta una sola opera, cioè una copia a inchiostro di una strofa del Wen Quan Ming tratta da una stle nel 648 che dimostra una straordinaria aderenza ai principi ortodosi dell'arte e una grande eleganza.
genseki

mercoledì, maggio 13, 2009

Variazioni su di un tema di Rimbaud II

I corvi sono incisi sulla valle
Dove mancano i pioppi, oggi,
E fioriscono gli agrumi
Dalla fiaschetta dorata
Sorseggio il distillato di artemisia
In memoria dei miei giorni morti
Delle radure sconosciute
Degli squarci di azzurro tra i faggi
Sotto l'erba correva allora l'acqua
Bianca come ogni sostanza seminale
Come ogni acqua materna
E i corvi sapevano dove li avevano nascosti
I cadaveri dei giorni
Proprio nei punti dove i boschi si gonfiavano
Come ascessi
E la pioggia era un'illuminazione cristallina
Pioggia di aghi allora sollevava
l profumi acuti del rosmarino
Solo i corvi lo sapevano
Dove dovevo scavare
Ubriaco di artemisia nella cunetta
Stanco, stanco del sole.

genseki

martedì, maggio 12, 2009

Gilles de Rais

Le pagine dell'investgazione continuano, si accumulano, rivelano centinaia di nomi, narrano il dolore delle madri che interrogano i passanti sulle strade, le grida delle famiglie nelle case da cui sono rapiti i bambini non appena si allontanano per zappare il campo e seminare la canapa. Queste frai ritornano desolate alla fine di ogni deposizione: “si vedono lamentarsi dolorosamente”, “si odono molti lamenti”. Ovunque si stabiliscano i macelli di Gilles le donne piangono. Il popolo terrorizzato racconta dapprima che fate melvage disperdono la sua prole. poco a poco, spaventosi sospetti cominciano a sorgere. Quando il Maresciallo si sposta, da Tiffauges a Champtocé, da Suze a Nantes, lascia dietro di sé una scia di lacrime. Attraversa una landa e, l'indomani, spariscono alcuni bambini. Fremendo il contadino constata anche che ovunque sono apparsi Prelati, Roger de Bricqueville, Gilles de Sillé, tutti gli intimi del Maresciallo, i bambini sono scomparsi. Infine, con orrore nota che una vecchietta, Perrine Martin, errra grigiovestita, il viso coperto da un velo nero come Gilles de Sillé, avvicina i bamini e le sue parole sono seducenti e il suo volto così attraente quando solleva il velo che tutti la seguono fino al margine del bosco ove attendono uomini che li portano via imbavagliati nei sacchi. Il popolo spaventato chiama questa fornitrice di carne, questa orchessa, la Meffraye come un rapace.

Questi emissari giravano per borghi e villaggi alla cacia del bambino agli ordini del Grande Cacciatore, il Signore di Bricqueville. Non contento di questi battitori, Gilles si metteva alle finestre del castello e quando qualche giovane mendico, attirato dalla fama delle sue liberalitá domandava l'elemosina, egli lo valutava con uno sguardo, faceva salire quelli la cui fisionomia lo incitava allo stupro e li gettava in una secreta fino a quando, affamato non esigesse il suo pasto carnale.

Quanti bambini sgozzó dopo averli violentati? Egli stesso lo ignorava. aveva commeso tanti stupri e tanti omicidi! I testi del tempo parlano di settecento ottocento vittime, ma questo numero è insufficiente, sembra inesatto. Regioni intere furono devastate; i casinali di Tiffauges non avevano piú bambini, a Suze non c'erano piú maschietti; a Champtocé tutto il fondo di una torre era pieno di cadaveri; un testimone citato nell'strutoria Guillaume Hylairet dichiara anche: “aveva udito dire che aveva trovato in quel castello una condotta piena di bambini morti”.

Ancora oggi persistono tracce di quei delitti. Comunque Gilles confesó spaventosi olocausti che i suoi amici confermarono con tuti gli spaventosi dettagli. Al tramonto quando i loro sensi sono come staffilati dal succo potente delle cacce, infiammati da bevande ardenti e speziate, Gilles e i suoi amici si ritirano in una camera lontana el castello. Qui i bambini prigionieri nelle fosse sono condotti, denudati, imbavagliati; il Maresciallo li palpa e li viola, poi li squarta a colpi di daga, si diverte a smembrarli pezzo a pezzo. Altre volte apre loro il petto e beve l'alito dei polmoni; apre loro il vente, lo fiuta, allarga la ferita con le mani e vi si siede dentro. Allora mentre si macera nel fango umido delle tiepide interiora guarda sopra la sua spalla per contemplare le supreme convulsioni degli ultimi spasimi. Lui stesso ha detto: “Ero piú contento di godere delle torture, delle lacrime, del terrore e del sangue che di tutti gli altri piaceri”.

lunedì, maggio 11, 2009

Non si cerca lo spirito con lo spirito

Quando le persone ordinarie odono parlare del metodo della trasmissione dello spirito di tutti i Buddha, essi affermano che otre queto spirito un metodo che puó essere attestato, afferrato. Si mettono in cammino, allora, con il loro spirito alla ricerca di un tale metodo, non sapendo che proprio questo spirito è il metodo e che il metodo è lo spirito. Non si puó cercare un altro spirito con lo spirito. Se si provasse per migliaia e migliaia di kalpa, in fin dei conti non si troverebbe prorio nulla.
La cosa migliore è entrare senza ambagi nel non-spirito, tale è, infatti, il metodo fondamentale. È come quel valoroso che ha perduto la perla che adorna la sua fronte. La cerca ovunque e mai non la trova finché un saggio gliela mostra ed egli si rende conto che si trova proprio tra le sue spracciglia dove, del resto, era sempre stata.
I discepoli dunque hanno perduto il loro spirito fondamentale, non vi trovano il Buddha che cercano altrove, si dedicano a pratiche meritorie, e, seguendo il cammino della testimonianza progressiva erseguon per interi kalpa il loro obiettivo e non raggiungono mai il fine della Via.
Quanto meglio sarebbe per loro se si attenessero direttamente al non-spirito!
Quando si sa con certezza ce in fondo nulla esiste, che non c'è nulla su cui appoggiarsi con ferma stabilitá, che non vi é soggetto, né oggetto, ecco allora che cessa di agitarsi qualunque pensiero erroneo si ottiene il Riveglio. Quando viene il momento di testimoniare la Via si testimonia solo il proprio spirito Buddha fondamentale. Kalpa interi di meriti non sono che pratiche vane. Quando il valoroo ritrova la sua perla ció che ritrova era la perla che era sempre restata sulla sua fronte e non il frutto di una ricerca ardente rivolta all'esterno.
Per questo il Buddha dice: "Nel supremo Risveglio ciò che ho trovato è nulla." Tuttavia nel timore di non essere considerato credibile, egli parla di ció che vedono i cinque occhi e di ció che dicono i cinque tipi di dicorso: la realtá non è un semplice vuoto. Tale è la veritá assoluta.
trad. geneki

Huerta

Variazioni su di un tema di Rimbaud

invano aspettarono che si aprisse
tra l'intrico delle varie ramificazioni
Dei piselli e dei fagioli
Minacciata dai carciofi e dalla sventura
Dell'orizzonte, la soglia della clorofilla
Rugginosa e ribollente
Ancora piú primordiale del latte
Il cui ricordo pur persisteva
Nella loro menti da prima che fosero di carne
E anche il vecchio lupo era un ricordo
Un ricordo spelacchiato di paure infantili
Abbandonato come un peluche adolescente
Sotto le foglie del cavolo che sapevano di burro
Svolazzavano nell'aria, non piume, no.
Piuttosto residui del festino del sole
Laggiù con le ultime stelle stanche.

genseki

Gloomy Sunday III

Diamanda Galas - Gloomy Sunday II

Gloomy sunday

Triste domenica

Triste domenica di fiori bianchi
Orna l'altare una folle speranza
In cui si prostra lo spirito lasso
Mentre la bocca non cessa l'appello
In sogno spegnesi l'occaso estivo
Stanco del sogno di vana attesa

Triste domenica!

Tu non comprendi l'angustia orribile
Di questa attesa senza vederti
Ti prego affrettati or devo andare
Lo vedi! Muio folle d'affanno
Ah se tu fossi bianco sudario
Che copra infine l'ultima ora.

Triste destino!

Amato
Presso la bara di fiori adorna
Sta il sacerdote e a lui sussurro:
amo ed attendo.

Senza timore fissa i miei occhi
Aperti e morti a te rivolti
Con le tue dita li devi chiudere
E solo allora potró dormire
Suon le campane or devo andare.

Triste domenica!

È giunta l'ora che debbo partire
Stringerti voglio nell'ultimo viaggio
Ma dentro sento che non verrai
A visitarmi domenica, amato
Che nella tomba t'ho da aspettare.

genseki

Triste destino!

venerdì, maggio 08, 2009

Quelli che ascoltano Brückner

Quelli che ascoltano Brückner
Sanno che il volo dei falchi
Ê un manuale di architettura gotica
Non tracciano rotte aeree
Delineano guglie intuiscono
Volte vertiginose, grotte luminose
In quello che resta di cielo.

Quelli che ascoltano Brückner
Sanno che il volo delle allodole
Ê un cuore, è sistole e diastole
Ê piccola spugna di sangue prezioso
Brivido giacinto allo scoppio del motore.

Quelli che acoltano Brücner
Ascoltano spesso i quartetti
Con il loro intimismo un po' legnoso
Ma tenero
E la cascata di luci e di rose astrologiche
Della Sinfonia n. IX
E sanno che sotto la scorza del carrubo
Si cela una carne rosa come recente ferita.

Quelli che ascoltano Brükner
Sanno riconoscere le frane di luce
Da piccole variazioni purpuree
Dei fiori dell'aloe
E notano le corna di un cervo
Nel palmizio del loro passato.

Quelli che acoltano Brückner
Sanno che le oasi sono verticali
Al desiderio
E che un adagio congeda momenti
Isolandoli nel tempo come gesti sospesi.

genseki

Il talismano

Molto a lungo ho giocato con i talismani. Sapevo quasi meccanicamente trasformare qualsiasi oggetto in un talismano ma non ero cosciente della pericolsitá di questa capacitá. Un talismano è una cosa, una cosa qualsiasi della vita quotidiana che si carica della possibilitá di asicurarci della nostra esistenza, della nostra continuitá temporale. Talismani sono i testimoni essenziali del fatto che siamo vissuti e che siamo vissuti come noi stessi, con una certa coerenza nella sucessione.
Per me collezionare significava collezionare talismani. Per questo non ha mai avuto senso la completezza di una collezione. Il significato di una collezione era nel fatto che ogni suo singolo elemento mi riconduceva ad una atmosfera, ad una luce, ad una persona, una stagione, un sentimento, una speranza. Insomma la collezione era una reificazione della vita e la completezza della vita non si dà in vita.
Certo la rassicurazione della propria continuitá nel passato era anche e soprattutto una rassicurazione della propria continuitá anche nel futuro. Una garanzia contro il morso stritolatore e nullificante delle dure mascelle della morte.
Anche per questo i talismani erano carichi di nulla. Tutto il nulla dell'eternitá, precariamente contenuto e stabilizzato ma pronto ad esplodere a frantumare il suo guscio se l'oggetto era usato incautamente.
Il nulla è i tuorlo del'uovo talismanico.
In vecchiaia ho perduto questa capacitá ma continuo ad accumulare potenziali talismani in fondo agli armadi, in una cpace borsa di forte plastica che comprai nel tempio taoista della Nuvola Bianca di Pechino.
genseki

mercoledì, maggio 06, 2009

Tra due mondi

nel viaggio il tempo si muta in spazio e lo spazio in tempo, o qualche cosa del genere, insegna la logica della dialettica. nel viaggio io quasi non vivo, mi sospendo, mi procrastino, aspetto di ritrovarmi dopo essermi abbandonato come un bagaglio ingombrante e di poco valore in una stazione da cui i treni posson solo partire.
Quel viaggio mi condusse dalla carnalitá del maggio sanguinoso alla fredda nebbiolina di un aprile apeninnico. Era un viaggio esattamente al confine tra la vita e la morte. Ma anche i confini, le linee, le soglie e i limiti hanno un dentro e un fuori rispetto a se stessi, naturalmente, e non a quanto delmitano. Mi trovavo piuttosto dentro, cioè verso il lato della morte, dal quale osservare la via come un'abitudine.
Fu certo una specie di caso che finissi per incontrare L. ad un casello autostradale che é l'equivalente moderno di un quadrivio sacro al Dio Messaggero, sotto una pioggia furiosa. La invitai a un caffé lassú oltre il bosco nebbioso e spoglio che tardava ad aprirsi al rigoglio stagionale fino all'umido santuario inevitabilmente grotta.
La cameriera era un giovane travestito alla soglia di una trasformazione forse radicale, non ancora nemmeno crisalide il cui culo magro stretto in un paio di pantaloni floreali suscitava in me forsennati e dolenti desideri carnali.
Figura sospesa tra due mondi di cui uno pareva pura negazione.
Un angelo bianco piú gonfio di una porcheria di Botero presideva al nostro malinconico rito.
Ma lei era per me sempre la raggiante.
La regina del bosco che lo ignora e si ignora perduta nel suo sogno di tetti e cortili.

genseki

martedì, maggio 05, 2009

Olav H. Hauge - Tid å hausta inn

Poesia e natura sono due facce della stessa marginalità, di un'unico tramonto.
Il tramonto del tipo di uomo che poteva leggere l'una attraverso l'altra.
genseki

Olav Hauge

Ho trovato queste poesie di Olav Hauge sulla rivista Poesia. Poesia è una rivista vocazionalmente melancolica. Ha qualche cosa di depresso. La poesia di Hauge é di una belleza frastgliata, marginale, lontana, inutile come quello che resta della natura, forse solo geologica nel mondo dell'umano pienamente alienato.
A questo umano corrisponde la malinconia e l'erosione dei volti corrugati e dei fiordi, che esprimono contemporaneament acquiescenza e riservato rifiuto.


Olav Hauge

Ogni giorno

Le grandi tempeste
Le hai alle tue spalle
Non domandavi un tempo
Perché esistevi,
Da dove venivi o dove stessi andando,
Eri soltanto nella tempesta,
ri nel fuoco
Ma si può anche vivere
Nella vita di ogni giorno
Il grigio calmo giorno
Piantare patate, rastrellare foglie
E raccogliere rametti,
Ci sono tante cose a cui pensare al momento,
A tutto non basta la vita di un uomo.
Dopo il lavoro puoi arrostire il maiale
E leggere poesie cinesi
Il vecchio Laerte tagliava i rovi
E rincalzava il fico
E lasciava gli erosi combattere a Troia

*

La falce

Sono tanto veccio
Da non lasciare la falce,
Cantare sommessa nell'erba,
E i pensieri possono correre.
Non fa nemmeno male,
Dice l'erba,
Cadere sotto la falce.

*

Da Dio all'Io

In questa lettera giovanile di Schelling a Hegel il programma dell'idealismo espresso con noncurante stringatezza mostra subito il suo carattere mitologico e narrativo.
È il resoconto riassuntivo del viaggio da Dio all'Io. Ovvero Dio che si fa Io. E Io che ritorna Dio dpo aver attraversato la Valle della ragion pratica.
Dio e Io sono qui due volti dello stesso assoluto che come io è ancora piú lontano che come Dio.
Dio si spoglia della personalitá per diventare un Io assoluto, assolutamente impersonale
genseki



Schelling a Hegel

Lettera sull'immortalitá dell'anima e su Dio

Per noi, ormai non esistono piú i concetti ortodossi di Dio... Noi arriviamo molto oltre l'essere personale . Ecco sono andato trasformandomi in uno spinozista! Non stupirti! Preso saprai in che senso: per Spinoza il mondo (l'oggetto semplicemente opposto al soggetto) era tutto, per me è l'Io. La differenza piú propria tra la filosofia critica e la dogmatica m par risiedere nel fatto che quella conidera l'Io assoluto (ancora non condizionato da nessun oggetto) come punto di partenza, e questa, invece, l'oggetto asoluto avvero il Nn-Io. Quest'ultima, portata alle conseguenze estreme porta al sistema di Spinoza e la prima a quello di Kant. La filosofia debe partire dall'incondizionato. Ma allora sorge la domanda. Dove stanno le radici dell'incondizionato?, nell'Io o nel Non-Io. Una volta risolta questa domanda, tutto il resto si risolve da sé. Per me il principio supremo della filsofia è l'Io puro e assoluto, cioè l'Io in quanto è solo e soltanto Io non ancora condizionato dagli oggetti, ma posto dalla libertá. L'alfa e l'omega della filosofia è la libertá. L'Io assoluto comprende una sfera infinita dell'essere assoluto nella quale si formano sfere finite che si originano per limitazione della sfera assoluta per mezzo di un oggetto (sfere dell'esistere-filosofia teoretica). In queste sfere vi é pura condizionaltá e ció che è incondizionato produce contradizioni. Noi peró dobbiamo abbattere le barriere, cioé, dobbiamo passare dalla sfera finita a quella ininita (filosofia pratica). Questa, per tanto esige la distruzione della finitezza e in questo modo ci conduce al mondo soprasensibile. “ Ció che era impossibile per la ragione teoretica in quanto debilitata dall'oggetto, o fa la ragion pratica”. Solo che in questo mondo possiamo incontrare soltanto il nostro Io assoluto, dato che solo esso ha descritto la sfera infinita. Per noi non vi è altro mondo soprasensibile che quello dell'Io assoluto, l'Io in quanto ha annochilato tutto l'ambito del teoretico, e che la filosofia teoretica è = 0. La peronalitá sorge con l'unitá della coscienza. Ma la coscienza non è possibile senza oggetto; nonstante, per Dio, cioè per l'Io assoluto, non vi è nessun ogetto, perch'altrimenti non sarebbe piú assoluto. Conseguentemente non vi è un Dio personale, e la nostra masima aspirazione è la distruzione della nostra personalitá e il pasaggio alla sfera dell'essere che, tuttavia non sará mai posible. Da qui la conclusione che è possibile solo un avvicinamento pratico all'Assoluto e da li all'immortalitá.

Lettera di Schelling a Hegel del 4 Febbraio 1795
trad genseki

lunedì, maggio 04, 2009

I due giudei

Vecchi sposi
Vecchi gelosi
Chiudete i chiavistelli
A prova di grimaldelli

(Canzon del povero diavolo)


Due giudei che si erano venuti a fermare proprio sotto la mia finestra contavano misteriosamente sulla punta delle dita le ore – ahi quanto lente! - della notte.


  • Avete denaro con voi Maestro? - chiese il piú giovane all'anziano che conversava con lui.

  • Ti par che questa borsa sia un sonaglio per allietare un infante?


Quand'ecco che un fiotto di folla si scaraventó con strepito fuori dai borghi circostanti e le loro grida si frantumaron contro i miei vetri come i confetti di una cerbottana.


Erano i barbetti che gioiosamente correvano verso la piazza del mercato da dove provenivano scintille di paglia e un certo odor d'arrosto.


  • Trallalla lalla, mi inchino alla Luna mia Signora! - Per di qua masnada dello Zoppo! Due giudei fuori di caa durante il coprifuoco!- Ammazzali! Ammazzali! Agli ebrei il di , alle lingere la notte.-


Le campane fesse strepitavano lassù dai campanili di Sant'Eustachio il gotico: - Dindon dan, dindon dan! -


Aloysius Bertrand

trad. genseki

venerdì, maggio 01, 2009

Marsilio Ficino

Ardenter amat amantem

Preferibilmente Egli rapisce colui che piú ardentemente lo ama. Con ardore ama chi lo ama. Tal benigno rapitore da te altro non vuole che tu sia sia felice d'essere da Lui rapito e questo come olui che mai potrebbe voler tal cosa da te se prima Egli stesso non l'avesse voluta. Similmente la luna non brillerebbe verso il sole se il sole prima non l'avesse illuminata e tu non potresti amare quell'amore se non fossi stato reso amante e capace di amare dall'amore stesso che t'infiamma. Non puoi afferrarlo se non come il luogo che ti contiene. Puoi, infatti contenere cose finite anche innumerevoli. Delle infinite non puoi contenerne nessuna se non ne sei contenuto. In modo simile l'immagine dello specchio non riflette il volto se prima il volto in lei non si fissa. Così anche quando sembra che tu contempli quel volto in realtá sei da Esso contemplato. Similmente atto e movimento non misurano il tempo per noi se non fosse il tempo che costituisce la misura delle stesse; l'anima non puó se non come Colui che la contempla, e non giudica se non come divinamente giudicata.

Ficino
De Raptu Paoli
Trad. genseki

Ardenter amat amantem

Rapit ille prae ceteris quem amat ardentius. Ardenter amat amantes. Non vult benignissumus ille raptor abs te aliud, quae feliciter rapiaris ab ipso, nisi ut vel mediocriter velis rapi: sed hoc numquam velles, nisi ille ante vouluisset. Quemadmodum Luna non refulget in Solem nisi a Sole prius non accensa, sic illum non amas amorem, nisi amore ipso te amante atque efficiente fueris inflammatus. Hunc rursus non invocas, nisi prius te vocantem, non apprehendis eum sicuti nec locum nis comprehendentem. Finita quidem ut plurimum capere potes etiam si ab illi non capiaris; infinito vero capere nihil aliud est quam capi. Et quemadmodum imago in speculo non respicit vultum videtur aspicere, nihil hoc aliud est quam aspici hanc a vultu; rursus quemadmodum actio motusque non metiuntur nobis tempus nisi tempus revera haec ipsa dimetiatur; sic anima neque respicit Dum nisi prius ipsam aspicientem nisi diiudicantem.

Marsilius Ficinus
De raptu paoli

martedì, aprile 28, 2009

Congiura egli spagnoli contro Venezia II

Siccome non ci sono petesti tnanto plausibili come la guerra per gravare il popolo, quella degli Uscocchi dava ai nobili che la conducevano un bella occasione per arrichirsi. Questa guerra costava troppo: non c'era solo il denaro che andava al Piemonte, si dovette anche mantenere una terza armata in Lombardia contro il governatore di Milano che minacciava sempre di fare qualche diversione a favore del'arciduca. La giustizia della causa della Repubblica rendeva i comandanti sempre piú arditi nell'inventare nuove vessazioni, e non rendeva affatto il popolo piú paziente nel sopportarle. Le cose giunsero a un punto che il marchese di Bedmar poté ragionevolmente pensare che il rivolgimento che egli meditava sarebbe stato tanto gradito al popolo quanto funesto ai grandi. E persino tra i grandi vi era chi non amava il governo. Erano i partigiani della corte romana. Gli uni, ed erano la maggioranza, ambiziosi e vendicativi, erano irritati del fatto che la Repubblica era stata governata contro il loro parere durante il conflitto con Roma. Erano disposti a tutto per deporre l'autoritá; e avrebbero contemplato con gioia le sventure dello stato come consegienze di una condotta che essi non avevno approvato. Altri, semplici e rozzi, volevano essere piú cattolici del papa, come questo avava ammorbidito e sue pretese nel compromesso, avevan immaginato che fosse stato obbligato a farlo per politica; e che se fosse restata qualche rstrizione mentale si poteva temere che la scomunica restasse nella testa di sua santitá. Tra questi vi erano alcuni senatori tanto poveri di beni come di spirito, che servirono molto in seguito ai piani del marchese di Bedmar, dopo che egli li ebbe persuasi, a forza di benefici che dopo questo fatti non si poteva piú essere veneziani a posto con la coscienza.
Per quanto fose strettamente proibito ai nobili di frequico di entare gli stranieri, aveva trovato il modo di stringere forti vincoli con i piú disagiato e con i piú scontenti. Se essi avevano qualche parente prossimo in convento, qualche cortigiana, o qualche ecclesiastico di fiducia, comprava la conoscenza di queste persone a qualsiasi prezzo e faceva loro regali che erano di grande valore pur essendo curiositá di paesi esotici. queste liberalitá fatte snza necessitá apparente fecero pensare a quelli che le ricevevano che potevano attirarsene altre pi'considerevoli. Con questo obiettivo, essi soddisfecero completamente la sua curiosit'su tutto quello di cui egli volle informarsi ed ebbero cura di informarsi su quelle cosedi cui non erano direttamente a conoscenza; siccome la sua riconoscenza superava le loro speranze, non ebbero riposo prima di aver introdotto i loro padroni inquesto affare.. Bisogna creder che la necessitá ne fu causa, e che questi nobili non poterono vedere senza invidia persone, del tutto dipendenti da loro, diventate piú riche di loro per dei regali che erano fatti per onorare proprio loro.
Saint-Réal
trad. genseki

lunedì, aprile 27, 2009

Filosofia della Natura

Che cosa resta di vivo nella filosofia della natura di Hegel?
Certamente la forza del linguaggio, la sorpresa esatta di un'immagine:

"Le stelle possiedono la puntualitá di permanere nell'astratta identitá della luce"

Hegel Werke t VII

Settima elegia

Opzione per il reale

Vivo nel nome delle foglie, possiedo nervature
Passo dal verde al giallo e
Mi lascio morire nell'autunno.
Nel nome della pietra vivo e permetto
Che mi si colpisca cubicamente sulle strade
percorse da automobili veloci.
Vivo nel nome delle mele, possiedo
Sei piccoli semi sputati tra i denti
Dalla fanciulla che ha perduto la ragione
Tra pigre danze di ebonite
Nel nome del mattone io vivo
Con polsini di calce, rigidi
Ad ogni mano, abbracciando
Un possibile tuorlo di esistenza
Sacro non lo saró mai. Molta
Troppa è la mia immaginazione
Di altre forme concrete
Per questo ho così poco tempo per pensare
Alla mia stessa vita.
Eccomi. Vivo in nome dei cavalli
Nitrisco, sotto gli alberi potati.
Vivo nel nome degli uccelli,
Ma soprattutto del volo.
Credo di avere le ali, però
Nessuno le vede. Tutto per il volo
Tutto
Non appoggiare ció che c'è giá
su ciò che ci sará.

Allungo una mano che per dita
Ha altre cinque mani, che
Per dita hanno cinque altre mani, che
Per dita
Hanno cinque mani.

Tutto per abbracciare
Minuziosamente, tutto,
Per palpare paesaggi non nati
Per graffiarli a sangue
Con una presenza.

Nichita Stanescu
trad. genseki

giovedì, aprile 23, 2009

Stilmous

Vecchia talpa

A volte questo Spirito non si manifesta, piuttosto si muove "sous-terre", come dicono i francesi. Amleto dice allo spettro che lo chiama repentinamente prima da un lato e poi dall'altro: "mi sembri una talpa molto vispa". Effetivamnte, lo Spirito scava sotto terra, molte volte, come una talpa, completando cosí la sua opera.. Tuttavia laddove il principio della libertá alza la testa, si manifesta una inquietudine, una agitazione verso l'esterno, una creaione dell'oggetto, e in essa o spirito deve consumare la sua forza.
Hegel Opera Filosofia della storia.

Eccola, finalmente, la vecchia talpa di cui tanto si è detto, letto e scritto fare capolino proprio nel suo momento originario, Questo passo della Filosofia della Storia conserva chiaramente ancora il suo carattere orale, il sapore di una conversazione tra il professore e gli alunni con un tono disteso e elegante cui accenna Gramci in una nota dei quaderni che ora mi è difficile rintracciare. La citazione di Shakespeare in un ambiente in cui il romanticismo è senso comune è piegata attarverso un gioco di parole ad un senso speculativo. La vecchia talpa avrebbe potuto forse aspirare ad assurgere al rango di una delle grandi figure del pensiero hegeliano, come che so: Servo padrone o Antigone? Forse no.Tuttavia questo passo è una buon spaccato del processo con cui Hegel elaborava le sue figure, le scolpiva traendole da dove capitava e impastandole di dialettica Chi ne fece una figura speculativ di grane successo fu invece Marx che proruppe nella fragorosa esclamazione: "ben scavato, vecchia talpa!". anche la frase di mar tradisce, senza dubbio la sua natura colloquiale e testimonia della esca dimestichezza sua col pensiero e la personalitá di Hegel che ancora nn era materiale per eruditi e professori.
Attraverso la vecchia talpa il comunismo riconsce come in uno specchio il suo volto in quello dello Spirito Assoluto. Il movimento necessario oscilla tra lo sviluppo delle forze produttive e la dialettica dell'alienazione e del disvelamento. Certo con questa figura Marx dimostra di essere piú prossimo al panlogicismo che al messianismo giudaico che da molti incauti gli si è voluto caricare sulle robuste spalle.
genseki

mercoledì, aprile 22, 2009

Sull'amore coniugale

Hic tecum, hic, coniunx, vita fruenda mihi est,
Otia si capian animum quid mollius umbra,
Fundit quam multa populus alba coma,
Quam platanus platanoque decens intersita laurus
Et quae tan raro citrus honore viret?
Sin labor, ut teneras hortis diponere plantas;
Ut iuva virentes carpere mane rosas
Aut tenuem e foliis Laribus pinxisse coronam
Et suae tritilicae serta parare deae,
Nunc legere arbuteos fetus montanaque fraga
Aureaque in calathis mala referre novis
Nunc agere incautas in retia carca volucre
Mille moos placidi rura laboris habent!
...
Hic tecum, coniunx, vita frunda mihi est:
Ista semana nos fata manent. Mors usque vagatur
Improba, vis mortem fallere? Vive tibi

Pontanus

De amore coniugali

mercoledì, aprile 08, 2009

Pasqua 2009

Ció che noi oggi chiamiamo la religione di Cristo, giá esisteva tra gli antichi e non è mai venuta a mancare dall'origine del genere umano fino al momento n cui Cristo si incarnó, epoca a partire dalla quale, la vera religione che giá esisteva cominció a essere chiamata Religione Cristiana.

Agostino
Confesiones I, 13
trad. genseki

Nikita Stanescu

Dice No solo chi comprende il Si

Prima elegia

Dedicata a Ddedalo
Della famosa stirpe degli artigiani
Dei dedaliani


Comincia e finisce in se stesso
Nessun'aura lo annuncia, nessuna
Cometa lo segue.

Nulla spunta fuori da esso
Per questo non ha volto
Non ha forma
Simile a sfera
Un grande corpo
Avvolto da una pelle sottile.

Ha ancora meno pelle, tuttavia,
Di una sfera.
È la perfezione dell'interiore,
Non ha margine
Pur essendo ben delimitato.

Non lo segna la storia
Dei suoi movimenti
Come le orme dei ferri seguono
I cavalli.

Non ha presente
ma è difficile immaginare
In che modo non lo abbia

Completamente interno
Dentro il punto stesso
Piú concentrato ancora che in un punto.

Non urta nulla
Nulla lo ostacola
Non ha parti esteriori
Con cui urtare.

Avvolto in esso,
Qui, io dormo.

Tutto l'opposto d tutto
Non si oppone
Non nega
Dice No solo colui
Che comprende il Si
Chi tutto conosce
Nel No e nel Si ha le foglie strappate.

Eppure non dormo solo io qui
Con me dorme la serie di coloro
Il cui nome io porto,
La serie degli uomini mi abita
una spalla. La serie delle donne l'altra.

Ma non possono nemmeno penetrarvi. Soo
Piume invisibili

Agita le ali - qui -
Nella perfezione dell'interiore
Che in sé comincia e
In sé finisce.

Da nulla annunziato
Nessuna cometa lo segue.

*

Seconda Elegia

Getica

Nella cavitádi ogni tronco viveva un Dio

Se in qualche pietra si apriva una crepa
Ecco che subito vi collocavano un Dio.

Bastava che un ponte crollasse
Perché al suo posto mettessero un Dio

O che nella strade apparisse un fosso
Per collocarvi un Dio.

Non farti tagli alle mani o ai piedi
Per nessuna ragione,
Ci metterebbeo dentro un Dio
Come ovunque,
Un Dio da rispettare che protegga
Tutto quanto da noi si separa.


Lottatore, attento a non perdere un occhio
Porteranno un Dio e lo inseriranno nel'orbita
E le nostre anime rabbrividendo lo glorificheranno
E anche tu obbligherai la tua anima
A rendergli gloria.

Trad genseki

giovedì, aprile 02, 2009

C'è un paradosso nel marxismo

Da "considerazioni su alcuni filosofi" di Alain

Marx

C'è un paradosso nel marxismo, cioè che questa dottrina che si presenta come un materialismo è in realtá l'idealismo piú ardito. Finché non si sa superare la contradizione, ovvero farla passare all'antitesi che è correlazione non si puó andare avanti. Gli innumervoli lettori di Lucrezio sanno che cosa vuol dire salvare lo spirito negandolo e io ho spesso notato il contrasto tra i materialisti che sono spiriti risoluti e gli spiritualisti che sono spiriti stanchi. Ma bisogna vederci chiaro e ogni difficoltá è risolta in questa formula ben conosciuta di Bacon: "l'uomo trionfa sulla natura obbedendola", di cui il piú insignificante uomo di mare conosce bene ogni applicazione pratica. Il nostromo non è quel tipo di uomo che nega la potenza del mare e nemmeno è disposto a pregare perché l'onda lo colga a prua e non sul fianco; al contrario davanti alla forza impietosa, che egli sa fedele e senza malizia, agisce, cioè passa appoggiandosi a ció che offre resistenza.
Tutti i mestieri conoscono questa tecnica.
Chi non ha pesato come su una bilancia l'universo inflessibile, così ben coeso, e corrispondente a se stesso in tutti i suoi movimenti, senza nessun pensiero, questi non è un uomo. Lo stato di infanzia consiste proprio nel credere che pregando e sperando si vivranno giorni migliori. L'audace cerca soltanto una fenditura su cui poggiare il piede, sicuro, nel modo piú assoluto che l'universo non bara.
Questa posizione severa è quella di Descartes, che anche dal corpo vivo, dal suo proprio corpo, avendo ritirato ogni pensiero e non vedendovi altro che particelle che spingono o sono spinte, pensó che si poteva vivere a lungo se si giocava con tenacia. Ma davanti al corpo politico, il piú complicato di tutti non aveva progetti, qui confidava nella natura, cioé nelle abitudini, nelle passioni, nell'amicizia. Viveva come un Leviatano, come un selvaggio nel bel mezzo della natura delle cose, ossequiandole tutte per precauzione.
Ora, chi vuol agire così è come il pilota sul mare. Dapprima deve cogliere le leggi meccaniche, ció che resiste, che offre un appiglio, ció che on inganna. Cioé leggere la politica come un vortice piú complicato a senza spirito. Non appena vi si suppone uno spirito si è obblligati a pregare. Quindi, in questo mondo umano, cercare ció che non cede mai alla preghiera, cioè ritrovarvi la necessitá naturale attraverso i bisogni, i lavori, le risorse. Come il muschio non spunta che nei luoghi umidi, cosí l'uomo si espande come un vegetale. Negozi, officine, banche, trasporti e depositi, tutto ció è disegnato sulla terra con la stessa necessitá d una macchia di umidita sul soffitto. Chi vuol dimenticare questa necessitá muore. Tutti i pensieri che hanno vissuto dipendono da queste necessitá inferiori. Ecco distrute tutte le nostre ambizioni, ma anche le ambizini del chirurgo sono distrutte nel chirurgo; questa riflessione virile che contempla finalmente la necessitá esteriore, non uccide l'azione, anzi le apre un varco.
Nel momento in cui l'acqua e il vento sono forze cieche ecco che io posso navigare. Da qui questa altra navigazione politica che guarda ai bisogni, agli utensili, ai lavori, elementi ciechi, senza capricci, che non barano e contemporaneamente con questa separazione dello spirito dal corpo la volontá trova le sue armi e testa la sua potenza.
Uno dei termini illumina l'altro come si dice e come si dimostra ma astrattamente, mentre in ogni momento, nell'azione bisogna trovare lo spirito puro se si vuol trovare lo spirito puro. da qui si comprende che i nostri sociologhi mistici sono al livello dei maghi della pioggia. Invece ogni minimo cambiamento nelle condizioni inferiori è come un colpo di remo nell'acqua.;puó essere dato bene o male, ma una buona traversata o un naufragio dipendono dalle stesse leggi, e la sola differenza, per quanto riguarda l'azione dell'uomo, consiste in movimenti minimi, in minimi lavori, tutti orientati da uno spirito previdente e senza paura.

Alain
trad genseki

mercoledì, aprile 01, 2009

Kenneth Patchet

Di Kenneth Patchet non so granché, ho trovato una scelta di sue poesie su una vecchia rivista, e una foto con la faccia da operaio fotogenico. Testardo.Non so cogliere il ritmo dei suoi versi. Non lo sento. per questo, credo le traduzioni suoneranno afone.
Eppure questa poesia la ho vissuta, la vivo da tempo. Quando il dulice sonno ci riporta alla tenerezza animale che non sa della morte, e la mente per contrasto trema della consapevolezza del nulla nel tepore di pelle e lenzuola.

Religiome è che ti amo

Il tempo avrá disteso i nostri corpi
In un unico sogno, saziata la fame, spezzato il cuore
Come una bottiglia bevuta dai ladri.

Amata, lontano si incotrano le nostre bocche
Prossimi i capelle, stretti gli occhi
Fuori

Fuori dalla finestra rami agitati
Da mite vento, muovono gli uccelli rapide ali

Amore, in quest'aria sfinita moriamo.

Lascia che guardiamo il sonno,
Che infiliamo le dita nel respiro che cade su di noi.

Vivi possiamo amare, anche se s'approssima la morte
Non dobbiamo ascoltare il suo canto senza speranza.

Ora, stringiamoci forte, non moriremo uno accanto all'altro.

*

Ereditá

Ti lascio i piaceri della terra:
L'erba bruciata dal sole; corpi
D'acqua, amabili nella vastitá degli anni
Senza avere ali per noi;
La vasta meraviglia del firmamento, tutto l'arredamento
Sfasciato dello spazio cardiaco interiore;
La cinica immagine dl fumo che sale a spirale
Dalle case che non abbiamo mai avuto.

Ti lascio i mari sulle spiagge secche
La treccia d'oro della pergola
Sulle nostre tombe: il tenero suono
Del silenzio su tutte le cose.
Ritorno del corpo ribelle: qui;
La cruda quesione dell'erba;
Il volto cisposo dello spirito
senza splendore. Basta.
Ti lascio.

*

Argomento dell'allodola

Di primo matino venne il gigante
Raggiunse l'albero dei piccoli.
Le loro facce erano come mele candide
E i freddi rami oscuri
E i loro vestititini
Gesticolavano nel vento.
Non si udirono i passi
Dei suoi piedi pesanti. Subito si mise all'opera
Tirandoli giú dolcemente
In un grosso canestro
Che con una cinghia d'oro
Pendeva dalle sue spalle.
Uno solo sfugggí - un dolce grazioso piccino
Dai capelli color latte anacquato.
Cadde nell'erba alta
E non lo poté trovare
Pur avendo frugato con le dita
Fino a che sanguinarono e sorse il giorno,

Agitò i pugni verso il cielo
E chiamò Dio
con un nome brutto.

Ma non ci fu risposta e il gigante
Si inginocchió davanti all'albero
Abbracció il tronco con le mani
E lo scosse
Fino a che caddero tutti i piccini
Nell'erba. E lui li pestò fino a frne gelatina.
Ma non si fermó qui
Diede fuoco al suo canestro mezzo pieno
Tenendolo Tenendolo con le mani finché
Non fu tutto bruciato. Egli vide poi
Due uomini che si avvicinavano su cavalli fumanti
Dalla parte del mondo.
Trasse un piccolo flauto d'argento
Dalla tasca e suonó un motivo
Dopo l'altro
Fino a che essi lo raggiunsero.


Trad. genseki

sabato, marzo 28, 2009

Hegel e Dogen

ll sapere che è in primo luoo o immediatamente il nostro oggetto non puó essere che quello che è esso stesso sapere inmediato, sapere del'immediato o dell'ente. Dobbiamo quindi metterci in relazione in modo inmediato e accogliente, senza modificare niente in esso tal quale si presenta e allontanando il concetto dalla percezione.

Il contenuto concreto della certezza sensibile fa che questa si manifesti come la conoscenza più ricca, ossia come una conoscenza infinitamente ricca tale che – anche movendosi nello spazio e nel tempo come nl mezzo in cui essa si espande oltre se stessa, oppure prendendo un frammento di questa pienezza e entrando per suddivisione, dentro quel frammento medesimo – non sapremmo trovarne il limite.


Hegel

Fenomenologia dello Spirito
Cap. I

trad genseki


La prima frase della fenomenologia, il punto di partenza dell'avventura della Bildung univesale è anche il punto di arrivo, ovviamente, quello del sapere piú ricco.

La certezza sensibile è quel genere di immediatezza che corrisponde al pensiero hishiryo del Maestro Dogen: “non pensare con il pensiero, pensare con il non pensiero. Come si pensa con il non pensiero? Col pensiero hishiryo”.

Cioè saltando inmediatamente, oltre ogni mediazione nella certezza sensibile,

Cioè raggiungere la meta al principio del cammino

Ieri fui sogno

Ieri fui sogno; domani saró terra!

Appena prima, nulla; dopo, fumo!

Eppur nutro ambizioni, eppur presumo

E punto son del cerchio che mi serra.


Breve battaglia d'importuna guerra

In mia difesa son periglio estremo

Con le mie mani il mio essere scemo

Meno m'alberga il corpo che m'interra.


Ier non é pú, domani non ancora

L'oggi trascorre, è fu giá con movimento

Che mi getta di morte nella gora.


E vanga è l'ora che per le mie ossa

Con mercé della pena che m'accora

Scava nella mia vita la mia fossa.


trad genseki


venerdì, marzo 27, 2009

Lo spirito e la nazione

In ciascuna delle sue forme, lo spirito del mondo ha raggiunto la sua propria autocoscienza, piú o meno sviluppata, peró sempre assoluta; ogni nazione, sotto qualsiasi sistema di leggi e di costumi ha saputo incarnarlo e godere della sua presenza.

Hegel

Legge naturale
Werke II
Pagg. 496-97
trad genseki

mercoledì, marzo 18, 2009

Orologi

Orologio da sabbi

Che vuoi contare tu
Orologio molesto
In un soffio di vita sfortunata
che passa tanto presto
Fornito il suo cammin d'una giornata
Breve e costretta dall'uno all'altro polo
Essendo tal giornata un passo solo?
Se contassi il travaglio, il duol, la pena
Del viver mio, non potresti serrare
Tanti grani d'arena
Che il mar istesso potrebbero colmare.
Lascia passar le ore, non segnarle
Non voglio misurarle
Non m'aggrada conoscere la sorte
Del termine obbligato della morte.
Deh non mi far piú guerra
Il nome di pietoso infin accetta
Poco tempo mi spetta
Pria di dormir nel grembo della terra.

Ma se è tuo dovere
Contar i giorni della vita mia
Presto riposerai poiché le cure
E le tante premure
Che nutre lacrimoso
Il cor mio doloroso
L'ardente fiamma ria
Ch'amor attizza nelle vene oscure
(men che di sangue son di fuoco piene)
Mi spinge con gran possa
Nel grembo della morte, e mi accorcia il cammino
Ché con pie doloroso
Misero pellegrino
Vo`dando giri presso la nera fossa.

Ben so che sono fiato fuggitivo
Giá so, già temo, già son fatto accorto
Che polvere saró, quale tu, da morto
E vetro son, quale tu sei, da vivo.

Quevedo

Poesie Morali

Trad. genseki

mercoledì, marzo 11, 2009

Il Risveglio

Attraverso il Risveglio si attualizza la vacuitá, la quidditá, il limite della realtá, il regno dello spirito e l'essenza.
Queste, peró sono solo parole, nomi che servono per intendersi provvisoriamente.
Il Risveglio in se stesso è l'ultima veritá e l'ultima realtá, È la norma immutabile, indistruttibile, oltre la disriminazione, è l'autentica pura conocenza che tutto penetra e che tutti i Buddha possiedono; è la perfezione fondamentale attraverso la quale i Buddha ottengono la penetrazine nella natura di qualsiai realtá, di ogni forma; sta oltre ogni definizione, di ogni struttura, di ogni pensiero.

Prajnaparamita Sutra
a cura di genseki

L'Atalante

La congiura degli spagnoli contro Venezia

Questa e l prima parte della traduzione di quest'opera, per molti versi avvolta di mistero di Saint-Réal, cui si ispiró Simone Weil per la sua bella Tragedia: "Venise Sauvée".
L'epoca della nascente riflessione scientifica sulla politica, del farsi autonoma della politica rispetto ad altre pratiche e ad altri saperi è l'epoca dell'analisi delle congiure e dei complotti.
La legge è sottesa ai femnomeni naturali, il complotto a quell politici. Dal gran secolo francese e da Botero e Gracián giú giú fino ai bassifondi di internet la spiegazione della politic in termini di complotto ha percorso un lungo cammino.
In Saint-Réal ha ancora la forma della meraviglia e dell'avventura.

Il protagonista di questi primi paragrafi è il Marchese di Bedmar. Egli è il congiurato ideale, che unisce la determnazione e la segretezza a una specie di onniscienza. Profondo umanista trae i suoi metodi di azione e i suoi convincimenti dalla frequentazione assidua dei classici. Nn è ineressato ai vantaggi che la sua azione puó portargli personalmente quanto piutosto alla forma che esa riveste, quasi come fosse un'opera d'arte. Bedmar é l'artista della congiura, il dandy del complotto.
La Repubblica di Venezia è il suo destino in quanto sistema di governo assolutamente razionale. Il governo di Venezia è ermeticamente chiuso in uno scrigno di procedure che vanificano il potere del complotto in quanto ne assumono i modi e la logica come forme proprie e quotidiane dell'azione di governo. Il senato di Venezia è la isituzionalizzazione del complotto come forma permanente di dominio e di controllo.

La sfida tra Venezia e Bedmar è inevitabile:

Il marchese di Bedmar

Quando i francesi ebbero posto fine al conflitto ch che opponeva la Repubblica di Venezia al papa Paolo V, in modo tale che l'onore dovuto al Santo Soglio restasse intetto e la gloria che i veneziano meritavano non venisse negata, solo gli spagnoli si ritrovavano in una condizione per la quale avrebbero potuto lamentarsi. Siccome si erano schierati direttamente con il papa e si erano offerti di sottomettere Venezia con le armi, furono irritati dall'aver questi intrapreso trattative quasi senza una loro partecipazione: quando peró ebbero avuto maggior contezza dei segreti dell'accordo, seppero che non avevano motivo di lamentarsi di lui e che il disprezzo d cui erano stati fati oggetto in quell'occasione proveniva dalla Repubblica. Era il Senato che aveva voluto in qualche modo escluderli dalla mediazione. Pretendeva che non potessero essere arbitri dopo aver dimostrato tanta parzialitá.
Per quanto il loro risentimento fosse grande per questa ingiuria essi non lo vollero manifestare fino a che visse Enrico IV: il debito che questo principe aveva con i veneziani era troppo conosciuto, cosí come l'attenzione con cui si era preso cur dei loro intresi nel conflitto con la corte pontificia. La sua morte lasciava mano libera agli spagnoli ch avevano soltanto bisogno di un pretesto.
Una banda di pirate, detto Uscocchi si era stabilita nelle terre adriatiche della casa d'Austria. Questi delinquenti avevano commesso un numero infinio di violenze contro i suditi della Repubblica, e godevano della protezione dell'Arciduca ferdinando di Graz, sovrano del paese e che in seguito sarebbe divenuto imperatore. Era un principe molto religioso, ma i suoi ministri dividevano il bottino con gli Uscocchi.
L'Imperatore Mattia, commosso dalle giuste lamentele della Repubblica, stipuló un accordo in Vienna nel mese di febbraio del 1612; tuttavia questo accordo fu cosí mal asservato da parte dell'arciduca, che si giunse a una guerra aperta, in cui egli non ottenne tutti i vantaggi che gli Spagnoli si aspettavano. I veneziano poterono facilmente rivalersi delle perdite che subirono in alcuni piccoli combattimenti: Siccome non avevano niente da temere da parte dei Turchi, potevano sopportare la guerra in migliori condizioni che l'arciduca. Questo principe era spinto alla pace dall'imperatore, perché il Turco minacciava l'Ungheria; e aveva bicogno di grandi somme per favorire la sua ascesa al trono di Boemia che si verificó in seguito molto presto. Gli spagnoli avrebbero voluto fornirgli i mezzi per continuare la guerra; ma Carlo Emanuele, duca di Savoia contro il quale erano in guerra alllo steso tempo, non permetteva loro di raccogliere le forze, e siccome questo duca riceveva molto denaro dalla Repubblica non ebbero modo, mai, di separarlo da essa.
Il consiglio di Spagna era molto indignato di verificare come i veneziani fossero in vantaggio ovunqu. Il genio dolc e pacifico di Filippo III e del suo favorito il duca di lerma, non sapeva trovare un mezzo per tirarsi fuori da una situazione tanto pericolosa; ma un ministro che esi avevano in Italia e che non era altrettanto moderato, prese su di se di risolvere il problema.
Si trattava di don Alfonso de la Cueva, marchee di Bedmar, ambasciatore ordinario a Venezia, uno dei geni piú poderosi e degli spiriti piú pericolosi che la Spagna avesse mai prodotto. Si vede, dagli scritti che ci ha lasciato, che possdeva tutto ció che secondo la storia antica e moderrna serve alla formazione di un uomo straordinario. Egli comparava le cose che vi si trovano narrate con quelle che accadevano al tempo suo, Osservava esattamente differenze e somiglianze delle quistioni e come quello che le differenzia modifica quella che le rende simili. Egli giudicava del successo di una impresa non appena en conosceva il piano e le basi. Se poi gli avvenimenti provavano che non aveva indovinato, egli risaliva alla fonte del suo errore e cercava di scoprire ció che l'aveva ingannato. In questo modo, aveva egli compreso quali fossero le vie sicure, i mezzi utili e le circostanze capitali che fanno presagire un buon successo dei grandi progetti e che fanno si che essi finiscano quasi sempre per riuscire. Questa continua pratica della lettura, della riflessione dell'osservazione delle cose del mondo, l'avevano innalzato a un punto tale di sagacitá che nel consiglio di Spagna le su congetture sull'avvenire erano prese come profezie.
A questa profonda conoscenza della natura delle grandi questioni, egli univa talenti singolari per la manipolazione, una facilitá di parlare e di scrivere in modo straordinariamente gradevole, un meraviglioso istinto per conoscere gli uomini, un aspetto sempre gaio e aperto, un umor libero e compiacente tanto piú impenetrabile quanto piú tutti quanti credevano poter penetrarlo; modi dolci, insinuanti e lusighieri, che attiravano il segreto dei cuori piú difficili ad aprirsi; tutto l'aspetto della piú completa libertá di spirito nelle convulsioni piú atroci. Gli ambasciatori di Spagna erano allora in condizione di governare e corti presso le quali erano inviati e il marchese di bedmar era stato scelto per Venezia nell'anno 1607 dal momento che questo era considerato il piú difficile egli incarichi all'estero, e in cui non ci si poteva avvaler di donne, di monaci e neppure di favoriiti. Il consiglio di Spagna era cosí contento di lui, che, nonostante sorgessero ncessitá altorve, per sei interi anni non si risolse a richiamarlo. Un si lungo soggiorno diedegli agio di studiare i principi di quel governo, di dipanarne i piú segreti ingranaggi, di scoprirne i punti forti e quelli deboli, i vantaggi e i difetti. Quando si rese conto che l'Ariduca sarebbe stato costreto alla pace e che questa sarebbe stato vergognosa per la casa d'Austria dal momnento che aveva torto, risolse di tentare qualche cosa per prevenire tale eventualitá.
Cnsider'che nello stato in cui Venezia si trovava non era impossibile impadronirsene con le conoscenze che aveva e con le forze sulle quali poteva fare affidamento.
Gli eserciti l'avevano privato delle armi e ancor peggio di uomini capaci di portarle.
Siccome la flotta non era mai stata tanto bella, il senato non si era mai considerato cosí temibile e mai aveva temuto meno. Tuttavia questa flotta invincibile quasi non poteva allontanarsi dalla costa istriana dove si combatteva quella guerra. L¡esercito di terra, anch'esso era lontano; e non vi era nulla a Venezia che potesse opporsi a un attacco della marina spagnola. Per rendere piú sicuro questo attacco il marchese di Bedmar volle impadrronirsi dei posti principali, come Piazza S. Marco e l'arsenale; e, siccome sarebbe stato difficile farlo se la cittá fosse stata perfettamente tranquilla, pensó bene di far incendiare contemporanemente tutti i luoghi che erano piú adatti e che fosse piú importante soccorerre.
Non volle scrivere subito in Spagna: sapeva che i principi non amano essere messi al corrente di questo tip di imprese che quando sono giunte ad un punto tale di esecuzione che solo manca un loro cenno di approvazione. Si accontentó di far notare al marchese di Useda, principale segretario di stato che la casa d'Austria era svergognata dall'insolenza dei veneziano nella guerra del Friuli e che tutti i negoziato che si svolgevano a Vienna e altrove erano pieni di ignominia e che egli credeva che fosse giunto il mmento in cui la natura e la politica obbligano un suddito fedele a ricorrere a mezzi straordinari per preservare il proprio principe e il proprio paese da una infamia altrimenti inevitabile; che questa preoccupazione lo concerneva particolarmente, a cusa del suo incarico, in cui aveva sempre davanti agli occhi le fonti del male cui si doveva porre rimedio, che e che egli avrebbe cercato di condurre a termine questo suo compito in un modo degno dello zelo che lo animava per l'onore del suo signore.
Il duca di Useda, che lo conosceva per quello che, comprese subito che questo discorso nascondeva qualche progetto pericoloso e importante in parti eguali: ma, come coloro che sono saggi non vogliono sapere niente di questo genere di cose se non obbligati, non comunicó il suo pensiero al Primo Ministro e rispose al marchese di Bedmar in termini generali, lodando il suo zelo e rimetendosi per il resto alla sua ben conosciuta prudenza. Il marchese che si attendeva una risposta del genere non fu sorpreso dalla sua freddezza; si dispose a metterei atto il suo piano per assicurarsi di essere approvato.
Mai vi fu nel mondo una monarchia assoluta come il dominio che il senato di Venezia esercitava nel governo della Repubblica. Infinita è la differenza tra i nobili e quelli che non lo sono. Solo la nobiltá puó comandare nei paesi che en dipendono.

Saint-Réal
traduzione genseki

giovedì, marzo 05, 2009

Parajanov

Gramscismi

Nell'articolo: “Antichi monasteri benedettini in Albania nella tradizione e nelle leggende popolari” del pade gesuita Fulvio Cordignana pubblicato nella “Civiltá Cattolica” del 7 Dicembre 1929 si legge:


Il “Vakúf”, - Ció che è rovina di chiesa o bene che gli appartenga – nell'idea del popolo ha in se stesso una forza misteriosa, quasi magica. Guai a chi tocca quella pianta o introduce tra quella rovine il gregge, le capre divoratrici di ogni fronda; sará colto all'improvviso da un malanno; rimarrá storpio, paralitico, mentecatto, come se si fosse imbattuto, in mezzo agli ardori meridiani o durante la notte oscura e piena di perigli in qualche “Ora” o “Zana” laddove queste fate invisibili e in perfetto silenzio stanno sedute a una tavola rotonda o in mezzo al sentiero.”


C'è ancora qualche altro accenno nel corso dell'articolo.


Questa nota di Gramsci cosi estranea al corso delle sue preccupazioni intellettuali quali esse ci appaiono nei Quaderni, cosí apparentemente divagatoria nella ci permette forse, per un istante di entrare nell'intimo della sua mente, di intravedere una fazione infinitesima del gomitolo di pensieri e desideri che continuamente si srotola nel suo e nel nostro cevello e che come un ronzio ci assicura che esistiamo. È questo ronzio quello che abbiamo di piú nostro, di piú personale, di piú simile ad una Io permanenente.

In queste poche righe di annotazione possiamo cogliere la tenerezza infantile del desiderio di un mondo di favole e di leggende, forse un appena un bagliore della strana convinzione di Gramsci di essere di origine albanese, la nostalgia della Sardegna arcaica, proprio quando anche la sua infanzia si fa per lui aracaica e il passato della terra leggendaria e della biografia perduta il solo orizzonte possibile.


L'isolamento delle rovine delle vecchie chiese è il correlativo simbolico dell'isolamento carcerario del suo corpo, anch'esso appunto segregato e in rovina.

Gramsci sente il suo corpo come il tempio, come il recinto del sacro nella sola forma in cui a lui è dato sentirlo.


Tutto questo nellinfinita noia dolente, nell'agonia ovattata di un pomeriggio carcerario.


genseki

mercoledì, marzo 04, 2009

Fantasia - Night on Bald Mountain

Gaspard de la Nuit

Con questo paragrafo termina la traduzione del primo libro di Gaspard de la Nuit di Louis Bertrand.


Partenza per il Sabba

Ella si alzó in piena notte, e, accesa una candela, prese un scatola e si unse, poi, per mezzo di qualche formula magica fu trasportata al Sabba.

Jean Bodin
De la démonomanie des sorcières.

Ce n'era una dozzina che mangiavano la minestra alla bara, ciascuna usando per cucchiaio l'avambraccio di uno scheletro.

Il camino era rosso di bragia, le candele come funghi tra il fumo,i piatti avevano l'odore di una fossa primaverile.

Quando Maribas rideva o piangeva, si udiva come il gemere di un archetto sfregato sulle tre corde di un violino fracassato.

Purtuttavia il Rodomente sbatté diabolicamente sulla tavola, alla luce del sego, un grimorio ove finì per abbattersi una mosca carbonizzata.

Ronzava ancora la mosca quando un ragno dal ventre enorme e peloso scaló i bordi del magico volume.

Ormai peró strege e stregoni giá se en erano volati via attraverso il camino a cavallo delle loro scope e attizzatoi, Maribas sul manico di una padella.

trad genseki

La vergogna e la pietá

Questo è un testo abbasanza noto di Pietro Colletta, dalla “Storia del reame di Napoli”

di esso parla Cesare Abba nel suo memoriale garibaldino pare che lo leggesse il Padre Canata nel Liceo Scolopico di Carcare.

Il contrasto tra l'abiezione, l'indifferenza e lo spettacolo è qui rapresentata con una precisione geometrica che ne fa qualche cosa di piú e di diverso da un testo di propaganda o di battaglia culturale anticlericale, ne fa una riflessione lucida su come la violenza e il dolore inflitto distruggano e le vittime e i carnefici, spoglino entrambi di qualsiasi dignitá. Gli inquisitori e gli eretici sono ridotti a grige comparse dementi bloccate nella confabulazione piú viscosa, triturate dalla tautologia, sfigurate dala perversione sistematica di ogni parola.

Tutti sono macchine che producono non senso. Passa nella mente di chi legge l'alito cinerino e morbido della demenza. Quello che resta è vergogna una vergogna piú profonda di ogni possibile pietá.

genseki


In dieci anni, dal 1720 al 30, non avvennero in Napoli cose memorabili, fuorché tremuoti, eruzioni volcaniche, diluvi ed altre meteore distruggitrici. Ma nella vicina Sicilia; l' anno 1724,fatto atroce apportò tanto spavento al regno, che io credo mio debito narrarlo a fine che resti saldo nella memoria di chi leggerà; e i Napoletani si confermino nell'odio giusto alla In- quisizione, oggidì che, per l'alleanza dell'imperio assoluto al sacerdozio, la superstizione, l'ipocrisia, la falsa venerazione del- l'antichità spingono verso tempi e costumi abborriti, e vedesi quel tremendo Uffizio, chiamato Santo, risorgere, in non pochi luoghi d'Italia, tacito, ancora discreto, ma per tornare, se for- tuna lo aiuta, sanguinario e crudele quanto ne' tristi secoli di universale ignoranza.
ndarono soggetti al Santo Uffizio, l'anno 1699, fra' Romualdo laico agostiniano e suora Geltrude bizzoca di san Benedetto: quegli per “quietismo, molinismo, eresia”; questa per orgoglio, vanità, temerarietà, ipocrisia”.
Ambo folli, però che il frate, con molte sentenze contraria a' dogmi o alle pratiche del cristianesimo, diceva ricever angeli messaggeri da Dio, parlar con essi, esser egli profeta, essere infallibile: e la Geltrude, tener commercio di spirito e corporale con Dio, essere pura e santa, aver inteso dalla Vergine Maria non far peccato godendo in oscenità col confessore; ed altri assai sconvolgimenti di ragione. I santi inquisitori ed i teologi del Santo Uffizio avevano disputato più volte con quei miseri, che ostinati, come mentecatti, ripetevano deliri ed eresie.
Chiusi nelle prigioni, la donna per venticinque anni, il frate per diciotto, (attesoché gli altri sette li passò a penitenza ne' conventi di san Domenico) tollerarono i martori più acerbi, la tortura, il flagello, il digiuno, la sete; e alla fine giunse il sospirato mamento del supplicio.
Avvegnaché gli inquisitori condannarono entrambo alla morte, per sentenze confermate dal vescovo di Albarracìn, stanziato a Vienna, e dal grande inquisitore delle Spagna; dopo di che il devoto imperatore Carlo VI comandò che quelle condanne fossero eseguite con la pompa dell' Atto-di-fede.
Le quali sentenze amplificavano il santissimo tribunale, la “dolcezza”, la “mansuetudine”, la “benignità” de' santi inquisitori: e incontro a sensi tanto umani e pietosi la malvagità, la irreligione, la ostinatezza de' due colpevoli. Poi dicevano la necessità di mantenere le discipline della sacrosanta cattolica religione, spegnere lo scandalo, e vendicare lo sdegno de' cristiani.
Il dì 6 di aprile di quell'anno 1724, nella piazza di Sant'Erasmo, la maggiore della città di Palermo, fu preparato il supplizio. Vedevi nel mezzo croce altissima di color bianco e da' lati due roghi chiusi, alto ciascuno dieci braccia, coperti da macchina di legno a forma di palco, alla quale ascendevasi per gradinata; un tronco sporgeva dal coperchio di ogni rogo: altari da luogo in luogo e tribune riccamente ornate stavano disposte ad anfiteatro dirimpetto alla croce; e nel mezzo, edificio più alto, più vasto, ricchissimo di ornamenti per velluti, nastri dorati ed emblemi di religione. Questo era per gli inquisitori; le altre logge per il vicerè, l'arcivescovo, il senato: e per i nobili, il clero, i magistrati, le dame della città: il terreno per il popolo.
A' primi albori le campane suonavano a penitenza: poi si mossero le processioni di frati, di preti, di confraternite; che traversando la città, fatto il giro attorno alla croce, si schierarono all'assegnato luogo. Popolata la piazza si dalla prima luce, riempivano le tribune genti che, a corpi o spicciolate, con abiti di gala,venivano al sacrificio: era pieno lo spettacolo; si attendevano le vittime.
Già scorso di due ore il mezzo del giorno, mense innumerevoli ed abbondanti coprirono le tribune, così che la scena preparata e mestizia mutò in allegrezza. Fra' quali tripudi giunse prima la misera Geltrude legata sopra un carro, con vesti luride, chiome sparse e gran berretto di carta che diceva il nome, scritto con dipinte fiamme d'inferno.
Convoiavano il carro,tirato da bovi neri e preceduto da lunga processione di frati,molti principi e duchi sopra cavalli superbi; e dietro cavalcati a mule bianche, seguivano i tre padri inquisitori. Giunto il corteggio, e consegnata la donna ad altri frati domenicani e teologi per le ultime e finte pratiche di conversione, ricomparve corteggio simile al primo per frate Romualdo: ed allora gli inquisitori nella magnifica ordinata tribuna.

Compiute le formalità, bandito ad alta voce l'ostinato proponimento d' colpevoli, lette le sentenze in latino, prima la donna salì sul palco; e due frati manigoldi la legarono al tronco, e diedero fuoco alle chiome, imbiotate innanzi di unguenti resinosi acciò le fiamme durassero vive attorno al capo: indi bruciarono le vesti, anch'esse intrise nel catrame, e partirono.
La misera rimasta sola sul palco, mentre gemeva e le ardevano intorno e sotto i piedi le fiamme, cadde col coperchio del rogo; scomparso il corpo, rimasero ai sensi degli spettatori i gemiti di lei; le fiamme, il fumo, che andavano ad oscurare l'alta croce di Cristo svergognata.
Così fra' Romualdo morì nell'altro rogo, dopo aver visto il martirio della compagna.
Tra gli spettatori notatasi un drappello sordido, mesto, di ventisei prigioni del Santo Uffizio, voluti presenti alla cerimonia: soli fra tutti che piangessero di quei casi, perciocché gli altri, sia per viltà, o ignoranza, o religion false, o empia superstizione, applaudivano l'infame olocausto……
…Descrisse quell'atto in grosso volume Antonio Mongitore……