venerdì, settembre 29, 2006

L'oscurità della luce


Dio mi disse:

- Hai visto come è oscura l'intensità di questa luce? Tira fuori la tua mano e non la vedrai! -
Tirai fuori la mano ed effettivamente npn la vedevo.
- Questa é la Luce, nella quale nessuno, tranne Me puó vedersi. Ho creato dalla Luce tutto l'esistente, tranne te che ho tratto dall'oscurità.

Ibn Arabi

a Cura di genseki

giovedì, settembre 28, 2006

Balkh





A cavallo delle nostre anime stremate
Un giorno viaggeremo verso Balkh
Tra le guglie rosse dei picchi di rame
Come isole nei laghi di agrumeti
All’orizzonte le sfere taglienti delle palme
Offriranno illusioni di riposo
Alle pupille inaridite

Ma noi le sproneremo, le nostre anime cammelle
Le nostre anime destrieri pezzati
Le nostre anime affamate
Taglienti come il volo scheletrico
Dei gabbiani
Con più rabbia, ancora,
Verso Balkh.

Berremo dai torrenti salati
Berranno la pelle di veluto delle correnti

Avvolti nel mantelli di sabbia bianca
Come gli occhi di un mendicante cieco
Seguiremo
- Quasi senza soste –
Smarriti e febbrili
La strada per Balkh

Come uccelli migratori
Dalle costole cave
Dal cuore a forma di mandorla
Beccando nel ricordo
Gli ultimi chicchi d’uva viola
Abbacinate da versetti marini
Voleranno verso Balkh
Le nostre anime.

Verso Balkh,
La madre delle cittá
Ove negli occhi dell’immenso
Buddha d’oro
Oscillano in una danza impercettibile
Le colonne di luce nera dei Profeti
Intrecciate ai riflessi dei nomi
Dei dodici Iman
Nelle calligrafie verticali
Delle ascese.

Nel tempio di fuoco
Dalle mura di fuoco
Dalle torri di fuoco
Nel giardino verdeggiante
Delle rose della prima rugiada
Pronunceremo, infine, il nome di Diotima.
A un soffio dalle sue labbra velate.

A Balkh
Saremo prossimi a noi stessi
Saremo il polso delle nostre vene
L’assenso che precede la domanda
Nel sole che rifulge verso Tabriz.

genseki

martedì, settembre 26, 2006

In una mano regge una candela





In una mano regge una candela
Un’ampolla nell’altra d’olio colma
Con l’altra ancora pietosa mi disseta
Volge la la testa e mi balena il sole
Il sole ulivo dai raggi cangianti
Di chiaro in chiaro fremente di rami
E sboccia il lume in iride di petali
Lanciati nel candore verticale
Ma l’Angelo distende il suo mantello
E discende la notte sopra il prato
Notte dolente tenebra odorosa
Del canto breve che l’anima esala.

genseki

giovedì 12 aprile 2001

lunedì, settembre 25, 2006

Fatima di Cordova



Una Dama di Siviglia

I primi maestri spirituali di Ibn Arabi furono donne, dapprima sua madre e poi sua moglie, in se
guito altre due figure rivestirono un ruolo decisivo nella sua abbagliante formazione: Yasmina di Marchena e Fatima di Cordova.
Quest'ultima fu per lui una guida essenziale nel cammino dell'Unione.

"Nonostante avesse piú di novant'anni", dice Ibn Arabi, "aveva un bel volto, i lineamenti regolari e le guance rosee di un'adolescente, di una quattordicenne".

Egli la ritrae come un'asceta rigorosa e come una mistica esemplare dotata di carismi innumerevoli, capace di fenomeni telepatici e di evocazioni misteriose e potenti dal mondo intelleggibile. Ella poteva giungere ad incarnare la Fatiha stessa.

"Servii come discepolo ad un gran adoratore di Allah, uno gnostico, una Dama di Siviglia chiamata Fatima bint ibn al-Muthanna, la servii durante vari anni. Aveva piú di novantacinque anni, suonava il tamburo e si compiaceva nel suo ritmo".

Con frequenza diceva: - Sono la tua madre spirituale e la luce della tua madre corporea -. Un giorno mia madre venne a vederla ed ella le disse: - O Luce, questo è mio figlio ed è anche tuo padre. Consideralo come tuo padre e non come tuo figlio, obbediscigli e non separarti da lui -"

Fatima è un lampo e un enigma nelle pagine della Storia e del pensiero, sorella di Diotima, o discepola sua nella catena misteriosa del tempo della trasmissione.

genseki

venerdì, settembre 22, 2006

Isabelle Eberhardt (1877-1904)




Svizzera di origine russa, si convertì all'Islam in Algeria, nella forma austera del Wahabbi.

« Etre sain de corps, pur de toute souillure, après de grands bains d'eau fraîche, être simple et croire, n'avoir jamais douté, n'avoir jamais à lutter contre soi-même, attendre sans crainte et sans impatience l'heure inévitable de l'éternité… » !

"Essere sana di corpo, pura da ogni macchia, dipo grandi bagni d'acqua fresca, essere semplice e creder, non aver mai dubitato, non dover mai lottare contro se stessi, attendere senza paura e senza impazienza l'ora inevitabile dell'eternitá".

Ebbe contatti con la confraternita sufi Qadiriyya, che svolgeva anche una attività anticoloniale e di assistenza ai poveri e ai perseguitati.

"Io mi sento tanto piú profondamente musulmana in quanto sono stata profondamente anarchica"

Una delle sue opere più belle e profonde si intitola: "Nella calda ombra dell'Islam".

Isabelle Eberhardtt amò profondamente una terra e una sapienza che non erano la propria, trovó la pace nell'abbandono di sé.

La sua conversione testimonia, per chi non vuole testardamente dimenticare che l'Islam non si propaga con la violenza.

genseki

giovedì, settembre 21, 2006

Yasmina

Di
Isabelle Eberhardt
1902


***
*


Ella era cresciuta in un luogo funereo dove, nel cuore della desolazione circostante, fluttuava l’anima misteriosa di aboliti milllenni.

Laggiù aveva trascorso la sua infazia, tra le grigie rovine, tra le macerie e la polvere d’un passato di cui ignorava ogni cosa.

La cupa grandezza di quei luoghi pesava su di lei come un carico troppo gravoso di fatalismo e di sogno. Così strana, così malinconica, tra tutte le fanciulle della sua razza: questa era Yasmina la Beduina.

I gourbis del suo villaggio si elevavano accanto alle rovine romane di Timgad nel mezzo d’un’immensa pianura polverosa, cosparsa di pietre senza età, anonime, macerie disseminate nei campi di cardi spinosi dall’aspetto malvagio, la sola vegetazione che potesse resistere al caldo torrido delle estati roventi. Erano di tutte le dimensioni, di tutti i colori quei cardi: ve n’erano di enormi dai grandi fiori azzuri, setosi tra le spine lunghe e acute, di più piccoli, stelline d’oro e tutti strisciavano coperti di fiorellini d’un colore rosa pallido. Qua e là uno stento cespuglio di giuggiolo o un lentisco reso rosso dal sole

Un arco di trionfo, ancora in piedi, si apriva in una curva ardita sull’orizzonte ardente. E colonne giganti, alcune coronate dai loro capitelli, altre spezzate, una legione di colonne dritte contro il cielo in una rivolta rabbiosa e inutile contro l’ineluttabilità della morte.

Un anfiteatro dai gradini recentemente liberati, un foro silenzioso, strade deserte, lo scheletro di una grande città defunta, tutta la trionfale gloria dei Cesari vinta dal tempo e riassorbita dalle viscere gelose di questa terra africana che lentamente ma inesorabilmente divora tutte le civiltà straniere o ostili alla sua anima…

All’alba quando lontano il Djebel Aurès s’iridava di luci trasparenti, Yasmina usciva dal suo umile gourbi e se ne andava lentamente attraverso la pianura spingendo davanti a sé il suo magro gregge di caprette nere e di pecore grigiastre.

Di solito ella li conduceva nella gola tormentata e selvaggia di un oued abbastanza lontano dal douar.


Là erano soliti raccogliersi i pastorelli della tribù. Yasmina, però, restava in disparte e non prendeva parte ai giochi degli altri bambini.

Passava tutte le sue giornate nel silenzio minaccioso della pianura senza preoccupazioni, senza pensieri, immersa in vaghi sogni, indefinibili, intraducibili in qualunque lingua umana.

Talvolta per distrarsi raccoglieva, sul fondo secco dell’oued qualche strano fiorellino risparmiato dal sole e cantava delle nenie in arabo.

Il padre di Yasmina, El Hadj Salem era già vecchio e curvo. Sua madre Habiba, a trentacinque anni soltanto non era ormai più che una vecchia mummia senza età, dedita ai duri lavori del gourbi e del campicello d’orzo.

Yasmina aveva due fratelli più grandi, entrambi arruolati negli Spahis. Li avevano mandati entrambi lontanissimo nel deserto. Sua sorella maggiore, Fathma, era sposata e abitava il douar principale di Ouled-Meriem. Al gourbi restavano soltanto i bimbi più piccoli e Yasmina, la maggiore, che aveva quattordici anni.

Così dall’aurora radiosa al malinconico crepuscolo, solo alloraYasmina rientrava con il suo gregge risalendo verso Timga illuminata dagli ultimi raggi del sole declinante. La pianura anch’esssa risplendeva in uno spolverio rossato dalle sfumature infinitamente delicate. E Yasmina se ne tornava cantando un lamento sahariano appreso da suo fratello Slimène che era ritornato per il congedo l’anno precedente e che lei amava molto.

Ragazza di Costantina
Che sei venuta a fare
Tu non sei del mio paese
Tu non sei fatta per vivere
Tra le dune abbaglianti
Ragazza di Costantina
Sei venuta e mi hai preso il cuore
E lo riporterai nel tuo paese
Hai giurato di ristornare, sul Nome dell’Altissimo
Ma quando ritornerai a El Oued,
Non mi ritroverai
Nella DIMORA DEI FIORI
Tu cercami allora in quella DELL’ETERNITA’

Lentamente la canzone lamentosa prendeva il volo nello spazio illimitato, lentamente il sole maestoso si spegneva sulla pianura.

Era tranquilla la piccola anima solitaria e ingenua di Yasmina, calma e dolce come quei laghetti puri che le piogge formano per un istante nelle effimere praterie africane, in cui nulla si riflette salvo l’azzurro infinito di un cielo senza nuvole.

Quando Yasmina rientò sua madre le annunciò che l’avrebbe sposata a Mohammed Elaour mercante di caffè a Batna.

Dapprima Yasmina pianse perché Mohammed era orbo e bruttissimo e perché era così rapido e imprevisto, quel matrimonio.

Poi si calmò e sorrise, perché era scritto. I giorni passarono; Yasmina non andava più al pascolo. Ella cuciva con le sue manine goffe il suo umile corredo di fidanzata nomade.

Nessuna delle donne del douar pensò a domandarle se fosse contenta di quel matrimonio. La davano a Elaour come l’avrebbero data a qualunque altro musulmano. Era nell’ordine delle cose, non c’era nessuna ragione di essere oltremodo contenta ma nemmeno di essere desolata.

Yasmina sapeva anche che la sua sorte sarebbe stata un poco migliore di quella delle altre donne della sua tribù perché avrebbe abitato in città e che avrebbe dovuto soltanto, come le Moresche, occuparsi della casa e allevare i bambini.

Solo i bambini qualche volta la prendevano in giro gridandogli: “Marte-el aour – la moglie dell’orbo!” Così evitava di andare a prendere l’acqua all’oued con le altre donne quando calava la sera. C’era una fontana nel cortile del bordj degli scavi, ma il guardiano roumi, impiegato delle belle arti non permetteva alla gente della tribù di attinngervi l’acqua pura e fresca e così erano ridotti a servirsi dell’acqua salmastra dell’oued dove passavano mattima e sera le greggi. Da qui l’aspetto malaticcio dellea gente della tribù continuamente colpita da febbri maligne.

Un giorno Elaour venne a dire al padre di Yasmina che prima dell’autunno non avrebbe potuto fare fronte alle spese delle nozze e pagare la dote della ragazza.

Yasmina aveva terminato il suo corredo e il fratellino Ahmed che l’aveva sostituita al pascolo, si era ammalato, ella riprese allora la sua attività di pastorella e le sue lunghe corse attraverso la pianura.

Continuva a seguire i suoi sogni di vergine primitiva che l’approssimarsi del matrimonio non aveva in nulla modificati.

Non sperava nulla e nulla nemmeno desiderava, per questo era felice.

C’era allora a Batna un giovane tenente distaccato dal Bureau Arabe, appena sbarcato dalla Francia. Aveva chiesto di venire in Algeria, perché la vita di caserma che aveva condotto per due anni dopo aver lasciato Saint-Cyr, l’aveva profondamente disgustato. Aveva un’anima di sognatore e di avventuriero.

A Batna, bene presto, era diventato cacciatore, per il bisogno di perdersi in quell’aspra campagna algerina che fin dall’inizio l’aveva particolarmente affascinato.

Tutte le domeniche, da solo, partiva all’alba, seguendo a caso le strade accidentate della pianura e talvolta gl’irti sentieri dei monti.

Un giorno, sfinito dal calore del mezzogiorno, spinse il suo cavallo nel burrone selvaggio ove Yasmina teneva il suo gregge.
Seduta su di una pietra, all’ombra di una roccia rossastra dove crescevano ginepri profumati, Yasmina giocherellava distrattamente con dei ramoscelli verdi e cantava un lamento beduino in cui, come nella vita, l’amore e la morte procedono fianco a fianco.

L’ufficiale era stanco e la selvaggia poesia del luogo gli piacque.

Quando ebbe trovato una sriscia d’ombra sufficiente a proteggere il suo cavallo, avanzò verso Yasmina, e, non sapendo che cosa fare, senza conoscere una sola parola di arabo, gli disse in francese:

- C’è dell’acqua qui intorno?

Senza rispondere, Yasmina si alzò per andarsene, inquieta, quasi selvatica.

- Perché hai paura di me? Non voglio farti del male, disse, già divertito da questo incontro.

Ella però fuggiva il nemico della sua raza vinta e se ne andò.

L’ufficiale la seguì a lungo con gli occhi.

Yasmina gli era apparsa, snella e sottile sotto i suoi stracci azzurri, il viso abbrozzato d’un puro ovale, in cui i grandi occhi neri della razza berbera scintillavano misteriosamente, con la loro espressione cupa e triste e si opponevano stranamente al contorno sensuale e contemporaneamente infantile delle labbra sanguigne e un po’ spesse. Appesi al lobo dell’orecchia graziosa due anelli di ferro inquadravano il suo volto affascinante. Proprio in mezzo alla fronte la traccia azzurra della croce berbera, simbolo sconosciuto, inspiegabile presso queste popolazioni autoctone che mai non furono cristiane e che l’islam colse ancora completamente selvagge e feticiste, con la sua grande fioritura di fede e di speranza.
Sulla sua testa dai pesanti capelli lanosi, nerissimi, Yasmina portava soltanto un fazzoletto arrotolato in forma di turbante piatto e svasato.

Tutto in lei portava il marchio d’un fascino quasi mistico di cui il tenente Jacques non sapeva spiegarsi la natura.

A lungo se ne restò là, seduto sulla pietra che Yasmina aveva lasciato. Pensava alla beduina e a tutta la sua razza.

L’Africa dove era giunto volontariamente gli appairva ancora come un mondo quasi chimerico, profondamente sconosciuto, e il popolo arabo, in tutte le manifestazioni esteriori del suo carattere, lo immergeva in uno stupore costante. Egli non frequentava quasi per nulla i commilitoni del Circolo, non aveva ancora imparato a ripetere i luoghi comuni correnti in Algeria e nettamente ostili, a priori, a tutto ciò che è arabo e musulmano.
Egli risentiva ancora dell’immenso incanto, dell’ebrezza dell’arrivo, e vi si abbandonava con voluttà.

Jacques discendeva da una nobile famiglia delle Ardenne, educato nell’austerità di un collegio religioso di provincia, aveva conservato, attraverso gli anni di Saint-Cyr, un’anima da montanaro, ancora relativamente chiusa a quello spirito moderno di scettico scherno partigiano, che mena rapidamente a tutte le decrepitudini morali.

Tuttavia, intelligente e poco espansivo, era già portato a analizzare le proprie sensazioni, a classificare in qualche modo i propri pensieri.

Così, la domenica successiva, quando si accorse di star riprendendo il cammino di Timgad, egli ebbe nettissima la sensazione di andarvi per rivedere la piccola Beduina.

Ancora molto puro e nobile non cercava per niente di barare con la sua coscienza. Ammetteva senza difficoltà di non aver saputo resistere alla voglia di comprare delle caramelle con l’intenzione di far conoscenza con quella ragazzian la cui strana grazia lo afferrava in modo così invincibile e a cui non aveva mai smesso di pensare per tutta la settimana.

E ora, partito all’alba per la bella strada di Lambèse, incitava il cavallo, preso da un’impazienza che stupiva lui stesso. Era il vuoto del suo cuore emerso appena dal limbo incantato dell’adolescenza, la sua vita solitaria lontano dal apese natale, i suoi pensieri quasi virginali, che i vizi di Parigi non avevano potuto macchiare, era questo vuoto profondo che lo spingeva verso ciò che di sconosciuto e emozionante egli cominciava a scorgere oltre questo abbozzo di un’avventura beduina.

Alla fine si inoltrò nella gola stretta e profonda dell’oued secco.

Qua e là, sul grigio della sterapglia spiccava la macchia nera di un gregge di caprette o quella bianca di uno di pecore

E Jacques cercò subito con una certa ansia quello di Yasmina.

- Come si chiamerà? Quanti anni ha? Mi vorrà parlare, questa volta, o, invece, scapperà come la volta scorsa?

Jacques si faceva tutte queste domande con un’inquietudine crescente. D’altra parte come avrebbe potuto parlarle, dal momento che, di sicuro ella non comprendeva una sola parola di francese ed egli non conosceva nemmeno il sabir?

Infine, nella parte più deserta dell’oued, scoprì Yasmina, sdraiata sul ventre tra i suoi agnelli, la testa appoggiata alle mani.

Non appena lo scorse ella si alzò, nuovamente ostile.

Abituata all’ostilità e al disprezzo degli impiegati e degli operai delle rovine ella odiava tutto ciò che era cristiano.

Jacques, però, sorrideva, non dava l’impressione di volerle fare del male. E poi ella vedeva bene quanto giovane e bello egli fosse sotto la sua divisa semplice di tela bianca.

Ella aveva accanto a sé una piccola guerba sospesa a tre paletti che formavano un fascio.

A segni Jacques le chiese da bere. Senza rispondere ella gli mostrò con il dito la guerba.

Egli bevve. Poi le porse una manciata di caramelle rosa. Timidamannte, senza ancora osar d’allungare la mano, ella disse in arabo, con un mezzo sorriso e alzando per la prima volta gli occhi verso quelli del roumi:

- Ouch-noua? Che cosa sono?
- Sono buone, disse lui ridendo della sua ignoranza, ma contento di aver infine rotto il ghiaccio.

Ella morsicò un caramella, poi, improvvissamente con un accento un po’ rude disse:

- Grazie!

- No, no, prendili tutti!

- Grazie, grazie! Signore, grazie!
- Come ti chiami?

Ella restò a lungo senza capire. Poi, siccome egli si era messo a citare tutti i nomi arabi di donna che conosceva, sorrise e rispose: “Smina” (Yasmina).

Allora lui volle farla sedere accanto a sé per continuare la conversazione, Ma colta da una paura improvvisa, ella se ne fuggì.

Ogni settimana, all’avvicinarsi della domenica, Jacques si accusava di comportarsi male, si diceva che il suo dovere era di lasciare in pace quella creatura innocente da cui tutto lo separava e che avrebbe soltanto potuto fare soffrire. Ma non era più libero di andare a Timgad piuttosto che di restare a Batna, e partiva.

Ben presto, Yasmina non ebbe più paura di Jacques. Ella veniva spontaneamente, ogni volta, a sedersi accanto all’ufficiale e cercava di spiegargli qualcosa il cui senso per lo più gli sfuggiva malgrado tutti gli sforzi della ragazzina. Allora, vedendo ch’egli non riusciva a comprenderla ella scoppiava a ridere. Questo riso di gola le faceva rovesciare la testa, scopriva i denti bianchi come il latte e trasmetteva a Jacques una sensazione di desiderio un presentimento di piacere inebriante.

In città, Jacques si dedicava con accanimento allo studio dell’arabo algerino, Il suo ardore faceva sorridere i commilitoni che, non senza ironia dicevano: “Deve averci una tipa lassù”.

Jacques amava già Yasmina, follemente, con quell’incontenibile intensità propria del primo amore in un uomo molto sensuale e sognatore in cui l’amore della carne si spiritualizza prendendo la forma di una vera tenerezza.

Tuttavia ciò che Jacques amava in Yasmina era la propria assoluta ignoranza dell’anima della Beduina, per lui era un essere di pura immaginazione, uscito dalla sua fantasia e sicuramente molto dissimile dalla realtà.

Sorridente, ma con un’ombra malinconia nello sguardo, Yasmina ascoltava Jacques, cantarle, ancora goffamente, tutta la passione ch’egli non cercava nemmeno di trattenere.

- E’ impossibile, ella diceva con nella voce una tristezza che andava già facendosi dolente. Tu sei un roumi, un kéfer, e io, io sono musulmana. Lo sai, da noi è haram che una musulmana prenda un cristiano o un ebreo; però tu sei bello, sei buono. Ti amo.

Un giorno, molto ingenuamente ella gli prese il braccio e gli disse con uno sguardo dolce e lungo: “Diventa musulmano. E’ facile! Alza la mano destra, così, ripeti con me: “La illaha illa Allah, Mahammed rashul Allah”: “Non c’è altro Dio che Dio e Maometto è il suo profeta”.

Lentamente, come per gioco, per farle piacere, ripeté queste parole solenni e armoniose, che, pronunciate sinceramente bastano a legare irrevocabilmente all’Islam.
Ma Yasmina non sapeva che certe cose si possono dire anche senza credervi, ella pensava che la sola enunciazione della professione di fede musulmana da parte del suo roumi ne avrebbe fatto un credente. E Jacques ignorando le idee fruste e primitive che il popolo illetterato si fa dell’Islam, non si rendeva conto della portata di ciò che aveva fatto.

Quel giorno, al momento della separazione, spontaneamente, con un sorriso di felicità, Yasmina gli diede un bacio, il primo… Per Jacques fu un’ebrezza senza nome, infinita.

Oramai, non appena era libero, anche solo per qualche ora, partiva al galoppo per Timgad.

Per Yasmina, Jacques non era più un roumi, un Kéfer… Egli aveva attestato l’unità assoluta di Dio e la missione del suo Profeta. Un giorno, semplicemente, con tutta la focosa passione della sua razza ella si diede a lui.

Fu un istante d’inesprimibile annientamento, poi come al risveglio, l’anima loro fu illuminata illuminata da una luce novella, quasi fossero emersi solo allora dalle tenebre.

Ormai Jacques poteva dire a Yasmina quasi tutte quelle cose dolci o commoventi che riempivano la sua anima, tanto rapidi erano stati i suoi progressi nello studio della lingua araba. Talvolta la pregava di cantare. Allora, sdraiato accanto a Yasmina, posava la testa sulle sue ginocchia, e, gli occhi chiusi, si abbandonava a un sogno impreciso, dolcissimo.

Da qualche tempo, un’idea singolare veniva ad ossessionarlo, e sebbene sapesse che era infantile, e del tutto irealizzabile si abbandonava ad essa trovandovi uno strano piacere… Abbandonare tutto, per sempre, rinunciare alla propria famiglia, alla Francia e restare per sempre in Africa con Yasmina. Anzi dare le dimissioni ed andarsene, sempre con lei, in burnous e turbante per condurre unì’esistenza pigra e lenta in qualche ksar del Sud. Quando Jacques era lontano da Yasmina, recuperava tutta la propria lucidità e sorrideva di questi maliconici infantilismi. Allorché però si ritrovava accanto a lei, si abbandonava a una sorta di assopimento intellettuale di una dolcezza indicibile. La prendeva tra le braccia e, tuffando il suo sguardo nell’ombra di quello di le, le ripeteva questa tenerissima parola araba:

- Aziza! Aziza! Aziza!

Yasmina non si domandava mai quale sarebbe stato l’esito de suo amore per Jacques. Sapeva che molte delle ragazze della sua razza avevano amanti, che si nascondevano con cura dai genitori ma che in generale tutto finiva con un matrimonio.

Ella viveva. Era felice, così, semplicemente, senza riflettere e senza altro desiderio che quello di vedere la sua felicità durare eternamente.
Quanto a Jacques, egli vedeva molto chiaramente che il loro amore poteva continuare soltanto in questo modo, indefinitamente, egli, infatti, si rendeva conto dell’impossibilità di un matrimonio tra lui che aveva una famiglia, lassù al paese, e questa piccola Beduina che non era nemmeno pensabile di portare in un altro ambiente, su di un suolo lontano e straniero.

Ella gli aveva ben detto che dovevano sposarla a un cahouadji di città, verso la fine dell’autunno.

Ma era così lontana, la fine dell’autunno… E anche lui, Jacques si lasciava andare alla felicità del momento.

- Quando vorranno darmi all’orbo, tu mi prenderai e mi nasconderai in qualche posto sulla montagna, lontano dalla città, perché non mi possano mai ritrovare. Mi piacerebbe vivere in montagna, ci sono alberi grandi più vecchi del più vecchio degli anziani, e acque fresche e pure che scorrono all’ombra, e uccelli dalle piume rosse e verdi e gialle e cantano…

“Come vorrei ascoltarli e dormire all’ombra e bere l’acqua fresca… mi nasconderai in montagna e verrai a trovarmi ogni giorno… imparerò a cantare il canto degli uccelli e lo canterò per te. Insegnerò loro a dire il tuo nome perché me lo ripetano quando sarai assente”.

Così gli parlava Yasmina, talvolta, con il suo strano sguardo serio e ardente.

- Ma, diceva, gli uccelli del Djebel Touggour sono musulmani… Non vorranno cantare il tuo nome cristiano, solo un nome musulmano canteranno e sono io che devo dartelo, sono io che devo insegnarlo anche a loro… Ti chiamerai Mabrouk, ci porterà fortuna.

… Per Jacques la lingua araba era diventata una musica soave, era la lingua di lei, e tutto quello che veniva da lei lo inebriava. Jacques non pensava più, viveva.

Era felice.

Un giorno Jaques apprese che era stato designato a un posto nel Sud oranese.

Lesse e rilesse l’ordine implacabile, che per lui significava una cosa soltanto, partire, lasciare Yasmina, lasciare che si sposi con un bottegaio orbo, non rivederla mai più.

Per giorni e giorni, disperatamente, cercò un modo per non partire, di farsi sostituire da un compagno… ma invano.

Fino al’ultimo momento, fin quando aveva potuto conservare una debolissima luce di speranza, egli aveva nascosto a Yasmina la sventura che stava per colpirli.

Nelle lunghe noti di insonnia e di febbre era giunto a prendere decisione estreme: ora era pronto allo scandalo supremo del rapimento e del matrimonio, ora a dare le dimissioni a lasciare tutto per la sua Yasmina, a diventare per davvero quel Mabrouk in cui ella sognava di trasformarlo. Ma un pensiero giungeva sempre che lo tratteneva; aveva un vecchio padre e una madre dai capelli bianchi, lassù nelle Ardenne ed essi sarebbero morti di angoscia se il loro figliolo, “il bel tenente Jacques”, come lo chiamavano al paese avesse davvero fatto tutte quelle cose che passavano per il suo cervello infiammato nelle lente ore di quelle brutte notti.

Yasmina aveva notato, naturalmente, la tristezza e l’inquietudine crescenti del suo Mabrouk e siccome lui non osava ancora confessarle la verità, le diceva che sua vecchia madre era molto malata, lassù, fil Fransa…

Yasmina cercava di consolarlo, di inculcargli il proprio tranquillo fatalismo.

- Mektoub, gli diceva. Siamo tutti in mano a Dio, morremo tutti, ritorneremo a Lui… Non piangere Ya Mabrouk, è scritto.

“Si, rifletteva lui con amarezza, tutti dobbiamo morire, un giorno o l’altro, separarci da tutto quello che ci è caro… Perché allora la sorte, quel Mektoub di cui lei mi parla, ci separa proprio adesso, adesso che siamo ancora in vita tutti e due?”

Alla fine, pochi giorni prima di quello stabilito irrevocabilmente per la sua partenza, Jacques partì per Timgad… Pieno di paura, di angoscia andava a dire la verità a Yasmina. Non voleva dirle, però, che la loro separazione aveva da essere, forse, anzi certamente eterna…

Le parlò soltanto di una missione che avrebbe dovuto durare tre o quattro mesi.

Jacques si aspettava uno scoppio straziante di disperazione.

In piedi davanti a lui ella non si scompose. Continuò a guardarlo diritto in faccia come se avesse voluto leggere nei suoi pensieri più nascosti. Questo sguardo pesante, che non poteva decifrare, lo turbò enermemente. O mio Dio, allora ella credeva che fosse lui che voleva abbandonarla?
Come spiegarle la verità. Come farle comprendere che non era padrone del proprio destino? Per lei un ufficiale francese era quasi onnipotente, completamente libero di far quello che voleva.

… E Yasmina continuava a guardare Jacques diritto in faccia, gli occhi nei suoi occhi. Restava in silenzio…

Non seppe sostenere più a lungo quello sguardo che pareva condannarlo.

La prese tra le braccia:

- O Aziza! Aziza! Disse. Tu ti arrabbi contro di me! Non capisci che il mio cuore si spezza, che io non me ne andrei mai, se solo potessi restare!

Ella agrottò le sottili sopracciglia nere.

- Menti! Disse. Tu menti! Tu non ami più Yasmina, la tua amante, la tua donna, la tua serva , quella cui hai preso la verginità. Sei tu che vuoi andartene! E poi menti ancora quando mi dici che tornerai presto… No, tu non tornerai, non tornerai mai più, mai più, mai più!

Questa parola ripetuta con ostinazione risuonò alle orecchie di Jacques come il rintocco funebre della sua giovinezza.

Abadane! Abadane! Nel suono stesso di questa parola v’era qualche cosa di definitivo, d’inesorabile e di fatale.

- Si, te ne vai… Vai a sposare la tua roumia, lassù in Francia…

Una fiamma cupa si accese nei grandi occhi rossi della nomade. Ella si era liberata quasi bruscamente dall’abbraccio di Jacques, sputò per tera, con sdegno, con un movimento selvaggio di indignazione.

- Cani e figli di cani, voi tutti roumis!

- O Yasmina, quanto sei ingiusta con me! Ti giuro che ho implorato tutti i miei compagni, uno dopo l’altro di partire al posto mio… non hanno voluto.

- Ecco lo vedi anche tu, quando un ufficiale non vuole partire, non parte!

- Ma i miei compagni sono io che li ho pregati di partire al mio posto e loro non dipendono da me, io invece dipendo dal generale, dal ministro della guerra…

Ma Yasmina incredula restava ostile e chiusa.
E Jacques rimpiangeva che lo scoppio di disperazione che aveva tanto paventato nel viaggio non si fosse davvero verificato.

Restarono a lungo così, silenziosi, un abisso ormai li separava, tutte quelle cose europee che dominavano tirannicamente la sua vita e che lei, Yasmina, non avrebbe mai potuto comprendere…

Infine con il cuore gonfio d’amarezza Jacques pianse, la testa abbandonata sulle ginocchia di Yasmina.

Quando lo vide piangere così disperatamente, ella comprese la sua sincerità… Strinse il capo tanto amato contro il suo, piangendo anch’ella, infine.

- Mabrouk, O tu, pupilla deglli occhi miei! Tu, luce mia! O macchiolina del mio cuore! Non piangere mio Signore! Non andartene, Ya Sidi. Se tu vuoi partire, mi sdraierò sul tuo cammino e morirò. Passerai sul cadavere di Yasmina. Ma se devi partire, assolutamente partire, ebbene, portami via con te. Sarò la tua schiava, Mi prenderò cura della tua casa e del tuo cavallo… Quando sarai malato, ti guarirò con il sangue delle mie vene… No, morirò per te. Ya Mabrouk! Ya Sidi! portami via con te…

Siccome egli restava in silenzio, spezzato dall’impossibilità di quello che lei chiedeva, ella riprese:

- Allora vieni, vestiti da arabo. Scappiamo insieme sulle montagne, no, più lontano ancora, nel deserto, nel paese dei Chaamba e dei Tuareg. Ti farai musulmano, la Francia, la dimenticherai…

- Non posso… Non chiedermi l’impossibile. Ho i miei vecchi genitori lassù, in Francia, ne morirebbero… Dio solo sa come vorrei tenerti accanto a me per sempre.

Sentiva le calde labbra di Yasmina accarezzargli dolcemente le mani mentre le loro lacrime scorrevano confondendosi… Questo contatto risvegliò in lui altri pensieri, ebbero ancora un istante di gioia così profonda come non ne avevano mai goduto di simile nemmeno nei giorni della loro tranquilla felicità.

- Come possiamo lasciarci! Balbettava Yasmina mentre le sue lacrime continuavano a scorrere.

Ancra due volte Jacques ritornò e ancora essi conobbero l’indicibile estasi che pareva stringerli l’uno con l’altra per sempre, indissolubilmente.

Poi suonò l’ora solenne degli addii… che l’uno sapeva e l’altra presentiva eterni…

Tutta la loro anima l’infusero nell’ultimo bacio…


Trad. genseki

mercoledì, settembre 20, 2006

Sulla materia e il linguaggio


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Non ha l’ottimo artista alcun concetto,
Ch’un marmo solo in sé non circoscriva
Col suo soverchio, e solo a quello arriva
La man che ubbidisce all’intelletto.

Michelangelo.

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Qual è il soverchio del linguaggio posto che esso sia la materia del verso?

· Si potrebbe forse vedere l’attività poetica come quella che libera il Senso della parola eliminando uno per uno tutti i significati e tutti i sensi che la parola ha nel suo essere in potenza così come nel suo realizzarsi come atto linguistico comunicativo.

· forse sono proprio il senso e la comunicazione, qualunque siano le relazioni che li legano a dover essere intesi come il soverchio michelangiolesco?

· Allora, si dovrebbe cercare di indagare cosa sia ciò che nella parola il senso e la comunicazione velano e forse velando rivelano, almeno talvolta, a qualcuno.

· Indubbiamente la parola rende possibile il senso e la comunicazione.

· Comunicando e significando, tuttavia, essa pare dimenticarsi o assottigliarsi e svanire.

· Il comunicare, il significare, che non sono in alcun modo coincidenti, sono il modo di darsi della parola.

· Essa dandosi si vela, si fa senso, cioè altro da quello che è in sé, comunicazione, cioè nulla di sé.

· Nella comunicazione la parola si svuota assolutamente del suo essere parola.

· Nel significato la parola copre di un velo il suo essere parola, di un velo che pare impenetrabile.

· Ma non ci sarebbe né senso né comunicazione se non ci fosse parola.

· E non ci sarebbe parola se non ci fosse il senso, se non ci fosse la comunicazione.

· In questo modo la parola è essenzialmente l’atto di velarsi e di annullarsi della parola medesima.

· Oppure nella forma dell’interrogazione?

· Qual è il rapporto tra il verso e la domanda?

· Il verso è una domanda che presuppone nel suo fondamento più intimo l’assenza di ogni eventuale risposta.

· Se la risposta appartenesse, come pare, al dominio della comunicazione, al dominio del senso.

· Il senso è la risposta alla parola che si da nella forma di una interrogazione?

· L’interrogazione è l’unica forma possibile di comunicazione, qui la risposta è implicita nella domanda. Vi è comunicazione quando per ogni domanda è implicita una risposta.

· L’interrogazione che parte dall’impossibilità essenziale della risposta è la poesia.

· La possibilità di questa interrogazione è la parola.

· Così il fare poetico consiste, infine, nel liberare l’interrogazione dalla possibilità della risposta.

· La risposta è il soverchio del linguaggio.

genseki



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martedì, settembre 19, 2006

Lucian Blaga




Poesie

Autoritratto

Luciano Blaga è muto come un cigno
Nella sua patria
In luogo di parole c’è la neve.
La sua anima è in cerca
Muta da secoli cerca
Da sempre
Fino al limite dell’ultima frontiera.

L’acqua egli cerca ove l’arcobaleno beve
Quell’acqua va cercando
Ove l’arcobaleno
Beve la sua bellezza ed il suo nulla.

***

Biografia

Ignoro il luogo e il tempo ove venni alla luce
Solo, nell’ombra mi convinco di credere
Che il mondo intero è un canto
Che in esso stupito mi compio
Un sorriso straniero sulle labbra nella magica ascesa.
Talvolta pronuncio parole non mie
Talvolta amo cose che non mi corrispondono.
Son pieni gli occhi miei di venti, di prodezze sognate
Come tutti cammino
Ora come un peccatore sui tetti dell’inferno,
ora innocente sui monti ove crescono i gigli
Nel cerchio dello stesso focolare
Scambio segreti con gli antenati
Popolo dall’acque reso puro sotto le antiche pietre
A sera tranquillo m’accade d’udire in me stesso
L’ininterrotto sgorgare
Delle favole d’un sangue da tanto dimenticato
E benedico il pane
Benedico la luna.
Vivo di giorno in balìa della tempesta
La bocca colma di parole spente
Io canto ed ho cantato il grande varco,
Del mondo il sonno, gli angioli di cera.
Tacendo sposto da una spalla all’altra,
come fosse un fardello la mia stella.

***

Io non calpesto la corolla di meraviglie del mondo

Io non calpesto la corolla di meraviglie del mondo
Non uccido
Co’ miei ragionamenti i misteri che incontro
Sul cammino
In fiori, in occhi, sopra labbra e tombe
La luce d’altri
Soffoca la magia impenetrabile celata
Nel profondo delle tenebre
Ma io
Con la mia luce amplio il mistero del mondo
Come i candidi raggi della luna
Non spengono
Ma rendono più vivo l’oscuro fremito della notte
Così rendo più ricco l’orizzonte tenebroso
Vasto di brividi del Santo Mistero.
Ciò che non è compreso
Cresce ad incomprensione ancor più grande
Per gli occhi miei
Ed amo
I fiori, gli occhi, le labbra e le tombe.

***

Paradiso in rovina

Tiene il guardiano alato ancora tesa
L’impugnatura d’una spada spenta
Non lotta con nessuno
Ché già vinto si sente
Per le pianure e per i campi ovunque
I serafini dalle chiome argentee
Del vero han sete
Ma l’acqua delle fonti
Fugge dai loro secchi.

Arando senza fede
Con aratri di legno
Si dolgono gli arcangeli
Del peso delle ali.
Vola tra i soli prossimi
Dello Spirito Santo la colomba;
e con il becco spenge le ultime scintille.
Nudi la notte gli angeli si coricano
Tremando nei covoni:
Sventura a me, sventura a te
Ora che l’acqua viva invade una coorte di ragni
Gli angeli marciranno, un giorno, nell’argilla
Taciterà la terra le leggende
Del corpo triste.

***

Fumo caduto

Sulle fredde pianure il volo delle oche
S’ode eco illusoria e passeggera
Lontano canto si lascia raggiungere
Dai richiami dell’eternità.
Inaridisce un flauto, un altro si fa muto
Alleluia il mio sguardo s’empie d’ali e di vento
Io non devo alla vita alcun ragionamento,
ma per tutta la vita le sono debitore.
Spesso con gesti spezzati
Vedo volte crollate nelle acque,
appaio tra i cespugli del villaggio
Qual da biblico carro
Sono il fratello stanco
Oggi come non mai
Del cielo di laggiù
E del fumo che cade dal camino.

***

Crepuscolo d’autunno

Da rosse labbra
Il crepuscolo sui monti
Soffia sopra la cenere di nuvole
Per attizzare la brace celata
Dal loro grigio velo sottile.

Un raggio
Che dall’occidente è accorso
L’ali ripiega e si posa tremando
Sopra una foglia
Ma troppo grave è il peso
Cade la foglia.

Anima mia
Resta bene celata nel mio petto
Nel più profondo,
Sì che raggio di luce non ti sfiori,
Ne crolleresti.

E’ autunno.

***

Il campo

D’oro a bizzeffe scoppiano le spighe.
Rosse gocce disseminano i papaveri
Nei campi
Una fanciulla
Di lunghe ciglia come spighe d’orzo.

Abbraccia con lo sguardo fasci di cielo puro
E canta.

Resto sdraiato all’ombra dei papaveri
Non ho rancori, rimorsi, desideri
Né slanci, solo un corpo
Un po’ di creta
Ella canta
L’ascolto
Sboccia l’anima mia sulle sue labbra
Come corolla.

***

La morte di Pan

IV. Aria di siringa

Solo ora sono e colmo di cardi
Io che un tempo regnai su stelle e il cosmo
Con la siringa m’udiva cantarlo.

Tende il nulla le corde.
Nessun straniero più
Penetra la mia grotta,
Solo le salamandre variopinte
E talvolta:

La luna.

***

Silenzio tra vecchie cose

Vicina vicina mi è la cara montagna
Da vecchie cose sono circondato
Coperte di muschio dal principio dei tempi
Nella sera dai sette soli neri
Che portano le tenebre buone
Dovrei esser felice.
Regna un silenzio adeguato nel cerchio
Che reggono le doghe della volta.
Ma mi sovviene il tempo in cui non ero
Come fosse un’infanzia lontanissima,
Ho nostalgia di non esser restato
Nella contrada senza nome.
Eppur mi dico
Stanno in cielo le stelle senza chiasso.
Davvero dovrei essere felice.

***

La grande traversata

Regge il sole allo zenith la bilancia del giorno
Ed il cielo si dona all’acque della terra
Gli animali che passano, occhi saggi,
Senza paura guardano l’ombre loro nell’onda
Ed il fogliame eleva le sue volte profonde
Sull’eterna leggenda.

Nulla vuol esser altro da se stesso
Solo il mio sangue corre per i boschi
Della lontana infanzia sempre in caccia
Siccome un vecchio cervo
Che chiama la compagna persa in morte

Ell’è forse perita tra le rocce
O forse è sprofondata nella terra
Attendo in vano qualche sua notizia
Solo risponde l’eco da caverne
Solo ruscelli in cerca dell’abisso.

Sangue senza risposte
Ché solo nel silenzio si udirebbe
L’avanzar della cerva nella morte.

Sempre più lungi esito sul cammino
E come l’assasino che con la sciarpa soffoca
Una bocca ormai vinta
Serro nel pugno tutte le sorgenti
Ché finalmente tacciano per sempre.

***

Salmo

Sempre mi fu dolore la tua solitudine celata
Ma cos’altro avrei potuto fare, mio Dio?
Da bambino giocavo con te
Ti smontavo nei miei pensieri come si smonta un giocattolo.
Poi mi son fatto ancora più selvaggio
Sono morti i miei canti
E senza mai che tu mi fossi prossimo
Per sempre ti ho perduto
In terra, in fuoco, nell’aria e nell’acqua.

Tra il sole che si leva e quello che declina
Di me non resta più che piaga e fango
Tu sei murato nella bara dei cieli.
Se tu non fossi più prossimo alla morte
Che alla vita allora parleresti.

O svelati mio Dio tra questi rovi
Così ch’io sappia quello che mi chiedi.
Vuoi che nel volo afferri la lancia avvelenata
Che qualcheduno contro di te ha scagliata
Per poterti ferire sotto l’ala?
O forse non vuoi nulla?
Tu sei la muta identità immutabile
( In se stesso ravvolto a resta a)
Tu non chiedi. Nemmeno la preghiera.

Ecco, nascono stelle
Nascono insieme alle mie tristezze
Ecco la notte che non ha finestre
Che ne sarà di me Signore Iddio?
Nel tuo cuore depongo i miei vestiti. Il corpo mio
Lo lascio, come si lascia un abito in cammino.

***

Trad. genseki

lunedì, settembre 18, 2006

Chateaubriand


La natura del mistero

Cosa vaga non v'è né dolce, né grande nella vita che non sia da annoverare tra le misteriose. I sensi piú meravigliosi son quelli che ci commuovono in modo un po' confuso: il pudore, l'amor casto, l'amistà virtuosa, son colmi di segreti; si direbbe che i cuori innamorati appena si intendano con le parole e restino come dischiusi.
L'innocnza, poi, che altro non è se non santa ignoranza, non è il più inesprimibile dei misteri?
L'infanzia è felice soltanto perchè non sa nulla, la vecchiezza perché sa tutto: fortunatamente quando si esauriscono i misteri della vita, ecco che iniziano quelli della morte.

Il Genio del Cristianesimo

trad. genseki

domenica, settembre 17, 2006

Castelli


Le loro torri erano scolpite
Nel grigio del loro cielo
Nel bianco del loro sole
Senza ombra - nella vastità
Cinerea degli altopiani

I cristiani sapevano ferire
Allora
Scambiare sale con sangue
Amore con ferro terso
Gelo con edera e spine

Ed era amore, infatti,
Quello che scintillava sulla punta delle nostre lance
Delle loro lance, feconde
Come le palme

Le nostre torri erano guglie sottili
Raggi azzurri nella rete verde dei canali
I nostri monti
Atalaye
Di fiamma solidificata
Come dita di angeli
Come sangue di fiori del paradiso
Come il rame
Generato dal silenzio

Nel mistero concavo
Dell’Uno.

17/09/2006 23:19
genseli

mercoledì, settembre 13, 2006

Wallada bent al-Mustakfi


Wallada bent al-Mustakfi nacque a Cordova verso la fine del secolo X. Suo padre Muhammad III fu proclamato Califfo con il titolo di al-Mustakfi bi-l-Lah il 17 Gennaio del 1024, il 27 di Maggio del 1025, dovette però fuggire verso gli oliveti di Jaén di fronte alla reazione del Califfo si i Yahyà ben Hammud che riconquistò di nuovo la cittá. Quivi per sopravvivere dovette rassegnarsi a chiedere l'elemosina e, finalmente, fu assassinato a Uclés.

A proposito di Wallada leggiamo presso Ibn Bassam

"il suo salotto era il luogo di incontro dei nobili del paese, il suo cortile era il campo di gara per i cavalli della poesia e della prosa. Gli uomini di lettere erano illuminati dalla luce della sua fronte, poeti e scrittori si raggruppavano attratti dalla dolcezza della sua compagnia e dalla facilità della sua accoglienza, nonostante il gran numero di ospiti. Tutto armonizzava con l'altezza del rango, la nobiltà della stirpe e la purezza delle vesti. non si preoccupava di celare le proprie passioni".

Gli olivi di Al-Andalus profumano di oceano, la primavera li bagna di una luce schiumosa e salata.
Questo spazio comprende Damasco e Kandahar. Fa parte con Qom e Ispahan di un'unica cartografia.

Di Wallada ci restano pochi versi, come questi che portava ricamati sulla veste

Lo giuro per Allah sono degna di maestà e nobiltà
Con orgoglio cammino, con il capo altezzoso
Lascio che gli amanti mi tocchino le chiome
Accetto i baci di chi desidera provare la mia bellezza.

genseki

martedì, settembre 12, 2006

Ibn Arabi





Secondo quanto insegna Borges, l’elenco è un vero e proprio genere letterario. In esso si trovano capolavori che si elevano come modelli: la lista delle navi di Omero, le enumerazioni di Rabelais, gli appelli dei Bodhisattva della letteratura Mahayana. Il seguente elenco, di Ibn Arabi, è una vetta e uno scoglio, uno faro nella tempesta delle tassonomie, lo svelarsi della meraviglia della successione che collega oceani vuoti.

Ibn Arabi nacque a Murcia il 28 di Luglio del 1165. In questa città lo ricorda una via abbastanza centrale, di una moderata eleganza, con uno spartitrafico di alte palme.
Ibn Arabi contemplò qui i minareti celesti e respirò l’odore dei fichi e dei datteri che si disfano nell’umidità degli orti. Ora degli orti non resta che il ricordo. Restano rosse guglie tra i monti, e dune di sabbia bianca che rimandano alle città di rame e allo spazio che le allontana dall’anima.

L’anima di Ibn Arabi è una torre caucasica nella verticalità della visione, una catarratta di suoni estatici

Quello che segue è l’elenco dei settanta Veli (che velano e disvelano la Presenza):


Le contemplazioni dei misteri

(Dio) mi disse : alza i veli uno a uno. Alzai il primo e vidi la inesistenza. Poi continuai a sollevare uno dopo l’altro i seguenti veli:

L’esistenza
L’esistente
I patti primordiali
Il ritorno
I mari
Le tenebre
La sottomissione
L’istruzione
La derivazione
La licenza
L’interdizione
La trasgressione
La collera
La prigione
Le lettere
La generazione
La morte parziale
La morte totale
La direzione
La trasmissione
La presa
I due piedi
Il privilegio universale
L’involucro
La partizione
La purificazione
La ricomposizione
La proibizione
La santificazione
Il paio
La cavalcata
La via
Il latte
La chiamata
La miscela
Gli spiriti
La bellezza
L’elevazione
L’autorità
La conversazione intima
La dissoluzione
L’arrivo
L’abbandono
L’amore
La sospensione dei mezzi
Il centro segreto
I semi
La veracità
Il dominio
Il pudore
Il vigore
Il limite
L’eredità
La combustione
L’annichilazione
La sussistenza
Lo zelo
L’aspirazione
Lo svelamento
La contemplazione
La maestà
La bellezza
La scomparsa dell’entità
L’impercettibile
L’inudibile
L’incomprensibile
L’intransmissibile
L’allusione simbolica
Il tutto.

genseki

mercoledì, settembre 06, 2006


Jorge Eduardo Eielson

***



Dio sorride nello schermo

Del cielo. Vedo il suo sembiante
Fatto di righe e punti
Luminosi. Non sono sicuro, però
Che sia il suo. Se fosse il mio?
Spengo la televisione
Sorrido anch’io

*


Vedo una sfera gialla

Ma quadrata che brilla appena.
Già non è più nulla. Vedo migliaia
Di sfere gialle
Che non sono quadrate
E che non brillano nemmeno

*

Dopo tutto quello che ho visto

Nella vita continuo a credere
Che non v’è nulla di più semplice
Né di più bello
Che una bottiglia di vino
Quando piove
E solo il fuoco ci resta
Per amico

*

So perfettamente

Che la mia casa è una stella
Che si chiama vita
Che questa stella è la terra
E che ne avrò un’altra di casa più tardi
Su un’altra stella
Chiamata morte

*

Nonostante tutto quello che ho vissuto

E sognato la mia unica corona
È la mia povertà
Il mio sangue porporino e stanco
Il mio unico manto nella vita
Principe eterno di niente
Nulla mi rende più felice
Nulla più leggero
Che la mia corona

*

Faccia dei coriandoli con questo foglio di carta

E li getti dalla finestra
Con le sue angustie
I suoi calzini e le sue unghie
Qualcuno giú di sotto finirá per riceverli
Como chi riceve
La pioggia dal cielo.

*

Gli uomini d’affari non respirano

Non singhiozzano non conoscono
Le magnolie. Solo a gran pena orinano
E defecano come possono. Neppure
Amano qualcuno e nessuno
Li ama. Non vi sono animali piú veloci
E piú prossimi a la morte
Che questi esseri vacui
Non c’è nulla che non desiderino
O che sia loro negata ma al loro contatto
Tutto diventa nulla
Gli uomini d’affari
Sono tanto veloci e tanto stupidi
Che non conoscono
L’ozio.

*

Trad. genseki

martedì, agosto 22, 2006

Supervielle


Io cerco di donarti
Ombra d'albero verde
Che, per te, tale resti
Anche se il tempo oscura
Tu di cui ben conosco
Il bel viso vivace
Anche se vuoi celarlo
Un po' di più ogni giorno
Donna morbido manto,
Timida bestiolina
Senza posa sfuggente
Begli occhi senza sponda
Circondati da lance
Sorte dal mio silenzio.

Trad. genseki

giovedì, luglio 27, 2006

Ben Waddah


Ben Waddah, Ahmed (Murcia, 1135)



Mi meraviglio dell’ingratitudine dell’arco
Non è leale con i colombi della macchia

Quando era ramo fu loro amico
Ora ch’è arco non ne ha pietá.
Tali le metamorfosi del tempo

Trad. genseki

Ben Waddah scrive queste righe immerso negli orti, nella profonditá verde dei palmeti e delle canne con l’odore dell’acqua verde come il bronzo.
L’acqua ha un odore, nel fondo degli orti, la geometria degli orti è perfetta
L’acqua delinea i perimetri, circoscrive, separa, definisce e traccia.
Intornio la terra è rossa e bianca e i pini montani si disfano in vaghe trasparenze.
Il bianco e il grigio dei colombi in fondo alla macchia è fresco, appartiene al mondo dell’acqua, al gorgogliare, al mormorio. Naturalmente tutto questo non lo sappiamo, possiamo solo immaginarlo ampliando scorci casualmente sopravissuti alla calcificazione.
Lontano sta la cittá. Ma pure la cittá è un labirinto di cortili e di giardini, dove gli animali, cani soprattutto sono importanti protagonisti.
Sulla cittá i minareti
Come funghi azzurri.

Questo testo puó evocare il momento in cui nacque come pura calligrafia, come gioco di parallelismi.

Il primo movimento è circolare e va dall’arco ai colombi e dai colombi all’arco.
Esso è diviso in quattro segmenti, il primo e il terzo, il secondo e il quarto sono in relazione metamorfica l’uno cn l’altro. L’arco si trasforma in ramo, i colombi passano dall’immobilitá al volo (dalla sicurezza al timore).
L’ultimo verso introduce la direzione: il tempo che corrisponde al diametro
del circolo appena descritto.
La direzione é antioraria, il tempo va dall’arco al ramo, come in una pellicola proiettata all’indietro.

Vediamo l’arco ritornare legno nella mano dell’artigiano e poi ramo nelle mani del boscaiolo che delicatamente pare ricollocarlo nel suo punto di incastro sul tronco del vecchio albero frondoso.
Ecco il frullo palpitante del volo dei colombi si immobilizza in un punto impercettibile di quiete e come attratti da una forza invisibile essi si appoggiano di nuovo su ramo che un attimo prima li seguiva sotto forma di freccia.

Poi di nuovo udiamo lo sciacquio pigro dell’acqua tra le canne scure e l’odore delle pesche che marciscono nell’orto.

Questo breve testo inutile è dedicato a Hezbollah a Hassa Nasrallah ai suoi combattenti, ai suoi martiri.

genseki