venerdì, novembre 13, 2015

Transumanesimo e risurrezione



Gli esseri umani non si sono mai rassegnati ad essere semplicemente quello che sono: segnati dal limite, dalla colpa, dal dolore, dalla morte, cercano nel culto, nel mito, nell’ascesi, nella mistica, nel fare memoria e nel progettare, delle vie verso un oltre rispetto a se stessi. Di tale oltre non sanno molto, ma senza di esso non saprebbero realmente vivere. Una forma contemporanea di tale impazienza nei confronti della condizione umana è legata ai recenti sviluppi dell’intelligenza artificiale. Internet ne è il simbolo.
Già oggi, e in modi assolutamente imprevedibili per una persona anziana che ripensi alla propria giovinezza, l’uomo contemporaneo è “aumentato” rispetto a quel che era. E – in non pochi ambiti – ha fin d’ora superato se stesso. Ne è segno tangibile il rapporto con il tempo e con lo spazio, ridotti l’uno e l’altro a una immediatezza un tempo inimmaginabile, non soltanto per quanto riguarda le informazioni, ma pure per quanto riguarda le decisioni. In questo senso, siamo già nel “transumanesimo”: stiamo passando da una condizione umana a un’altra[1]. E sembra che non ci siano ragioni per le quali tutto questo dovrebbe fermarsi, dato che le realizzazioni e le prospettive future dell’intelligenza artificiale non presentano limiti. Sembrerebbe che tutto consista nel trasferire le prestazioni  di quest’ultima all’interno dell’uomo stesso, offrendo così ad esso, attraverso le risorse delle nano-scienze e delle nanotecnologie, una liberazione completa da quelle condizioni contingenti che lo mantengono ancora legato al proprio corpo (spazio), un corpo limitato nella sua longevità (tempo) e, in ultima istanza, sottomesso alla morte. L’intelligenza artificiale permette non solo di sviluppare il “transumano”, ma anche di immaginare il “post-umano” e di intravedere ciò che viene chiamato la “singolarità”, ovvero il momento in cui tutto sarà ribaltato in una intelligibilità pura ed efficace, verso la quale fin d’oggi conducono tutte le ricerche e le tecnologie più sofisticate. Si tratterebbe di qualcosa di equivalente all’epopteia del Simposio di Platone o all’advaïta dei pensatori indù, ma ottenuto attraverso lo sforzo degli esseri umani; al punto che coloro che – tra questi ultimi – sono progrediti maggiormente nella ricerca e nella prospettive future, collocano l’avvenimento di tale “punto omega” in futuro molto prossimo.
Non penso si debba sorridere davanti a tale utopia transumanista, che conferisce una forma contemporanea al desiderio essenziale – per quanto spesso non cosciente – dell’uomo: il desiderio che la propria verità stia oltre se stesso. A tale forma contemporanea si possono certo obiettare i considerevoli pericoli legati alla messa in opera, concreta e continua, delle formidabili risorse dell’intelligenza artificiale: pericoli non solo per l’uomo in generale, ma anche per il pianeta e per l’universo[2]. Mi limito soltanto a sottolineare quello che mi pare sia il “vizio” celato in questa utopia: il suo individualismo. Ci si chiede come l’uomo, autonomous individual, possa giungere al culmine delle trasformazioni di cui è tecnicamente capace, e, pur non ignorando i rischi di tale impresa, si tende a minimizzarli, non considerando come “l’individuo autonomo” non esista affatto, non sia mai esistito, e come l’essere umano in realtà sia, e sia sempre stato, con altri. I quali sono per lui essenziali.
In verità, la vita non è fatta per essere aumentata secondo le possibilità di una ingegneria tecnica sempre più capace, ma per essere ricevuta e donata. La massima evangelica “Chi perde la sua vita la troverà” costituisce il solo paradosso capace di indicare il cammino di un autentico “transumanesimo”. Se gli “altri” fanno parte di ciò che concorre a un vero progresso umano, occorre ascoltarli, accogliere il loro dono e le loro parole, e dunque trasformare il desiderio di “essere sempre più” nel desiderio di “essere con”, di “essere per”: desiderando che noi siamo, e non soltanto che io sia. Questo significa, concretamente, “morire a se stesso” per rinascere con altri. Gli eroi e i santi, uomini realmente “aumentati”, sono coloro che lo hanno compreso e la cui memoria è benedizione.
Vorrei qui citare un breve testo che François Cheng ha scritto recentemente, facendo risuonare l’ultima strofa del Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi: “La morte, nella sua essenza, non è affatto una fine assurda, una figura spaventosa che giunge dall’esterno. Dall’esterno può giungere ogni possibile tipo di aggressione, ma la morte in se stessa è la parte più intima di ciascuno, il frutto che ciascuno porta in sé, frutto contenente carne, succo e semi, attraverso il quale si potrà rinascere diversamente, accedendo a un diverso stato d’essere”[3]. Cheng sta qui pensando alla morte corporale evocata da san Francesco. Eppure non è forse ogni istante della nostra vita morte e risurrezione? La rinuncia, nata dal prendersi cura dell’altro e di “se stesso come un altro” (come diceva Paul Ricoeur) è un atto intimo continuamente sollecitato dalla vita, grazie al quale si accede a un differente stato d’essere. Se si acconsente ad essa, momento per momento, quella morte corporale che ci sarà a suo tempo data, sarà vissuta come il frutto maturo della vita, come primizia di risurrezione. La morte e la risurrezione di Gesù, di cui ho parlato in un post precedente in questo stesso blog, ne sono l’icona.
Questo non significa che dobbiamo rinunciare a ogni progetto transumanista. Significa però che occorre preservare tale progetto dagli aspetti fantascientifici che esso talvolta coltiva, e soprattutto mantenerlo all’interno di una visione della vita dominata non dalle aspirazioni incontrollate dell’individuo autonomo, ma dal tema della morte e della risurrezione in quanto legate a una cura dell’altro che ne costituisce la verità. In questo mondo e nell’altro.
(traduzione dal francese di Stefano Biancu)

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