lunedì, agosto 12, 2013

Antonio Gamoneda

Dal "Libro del freddo"

Trad. genseki

Il vino era celeste nell'acciaio (Ah la luciditá del venerdí) e nei suoi occhi. Dolcemente andava distruggendo le cause dell'infezione: grandi fiori immobili e la lubricità, la cinta nera nel silenzio dei serpenti.

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Nella sua canzone vi erano corde senza speranza, un sole lontano di donne cieche (madri scalze nel presidio trasparente del sale).

Suonava a morte e rugiada, poi soffiava in una siringa nera, era il cantore delle ferite. La sua memoria bruciava nel paese del vento, nella bianchezza dei sanatorii sonnolenti.

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Era sagace nella prigione del freddo,
Scorse presagi nel mattino celeste; gli sparvieri fendevano l'inverno e lenti erano i ruscelli tra i fiori della neve.

Comparivano corpi femminili e ne percepiva la fertilità.


Poi giunsero mani invisibili. Con dolcezza esatta afferò quella di sua madre.

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Un tempo le mie sole passioni erano la povertà e la pioggia.

Ora sento la purezza dei limiti e la mia passione non esisterebbe se sapessi il suo nome.

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