lunedì, luglio 01, 2013

Le cittá tentacolari



La pianura

La pianura è cupa le sue stoppie, i granai
E le cascine dalle travi marce
E’ cupa la pianura, sfinita, non si difende più
E’ cupa la pianura e morta la città la divora
Potenti e criminali
Le braccia di macchine iperboliche
Falciano l’evangelico frumento
Spaventano il seminatore malinconico
Il cui gesto pareva in armonia col cielo.
Lurido fumo in stracci di sego
Ha attraversato il vento e l’ha sporcato
Ed il sole povero e svilito
E’ come consumato dalla pioggia.
Là dove un tempo le luminose case
In gruppi l’una all’altra si stringevano
E i giardini dagli alberi dorati
Dal sud al nord infinita si scorge
La nera immensità dei capannoni.
Come una bestia enorme e taciturna
Che ronzi dietro un muro
S’ode il ronfare ritmico e duro
Delle caldaie e delle mole notturne
Vibra il suolo come fermentasse
Bolle il lavoro come un delitto,
E la fogna trascina un fango vellutato
A sporcare l’acqua del fiume
Un supplizio d’alberi scorticati
Torce convulso le braccia
Sulla facciata del bosco vicino
Sfinisce l’ortica il suolo sabbioso
E i letamai sempre più alti dei rifiuti
Unti cementi, putridi laterizi, pietre spaccate
Lungo i vecchi fossati dagli argini scuri
Si levano la sera in marci monumenti.
Sotto gli hangars pesanti di rimbombi,
Le notti e i giorni
Senz’aria e senza sonno
Lungi dal sole soffrono persone
Pezzi di vita nell’ingranaggio enorme
Pezzi di carne fissati con ingenio
Pezzo per pezzo, ripiano per ripiano
Da un capo all’altro della vasta giostra
I loro occhi son gli occhi della macchina
Sotto di essa piegano le schiene
Le loro vive dita si moltiplicano
In mille dita precise e metalliche
Tale è l’usura della loro fatica
Sulla materia sanguinaria
Che vi imprimono continuamente
Tracce di rabbia e gocce di sangue.
Dite l’antica fatica contadina d’agosto
Tra segale mature e avene rosse
Le braccia nella luce, alta la fronte
In mezzo al grano d’oro che si piega
Al torrido orizzonte di silenzio bollente.
Dite! Quella tiepida quiete i mezzogiorni eletti,
Nell’intreciare l’ombra per la siesta.
Sotto i rami di cui i venti lesti
Ritmano con lentezza gli ampi gesti frondosi
Dite, la gran pianura come un fertile orto
Folle d’uccelli sparsi nella luce
Che la cantano tutti a piena voce
Così prossimi al cielo che non li si ode.
Oggi la pianura è finita
E’ cupa la pianura e più non si difende
Il flusso ed il riflusso di rovine
L’hanno sommersa con monotonia.
Solo lontano muri d’orto diruti
Sentieri neri di scorie di carbone
Scheletri di masserie
Tagliano rapidi i treni i villaggi.
Tacciono le voci delle madonnine
Negli angoli dei boschi in mezzo agli alberi;
I vecchi santi  dalle nicchie di marmo
Sono caduti nelle fonti sacre.
Tutte le cose come bare vuote
Sono sfasciate disperse nello spazio
Ed è un lamento di defunti perduti
Singhiozzanti al tramonto nell’umida brughiera.
E’ morta la pianura, è finita!
Son morti i campanili inchiodati i mulini.
E gli ultimi rintocchi d’un angelus lontano
Sono i singulti della sua agonia.

Emile Verhaeren
Trad. genseki

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