lunedì, marzo 28, 2011

Tugsteno

César Vallejo

Tungsteno





Tungsteno è la sola opera narrativa di un certo respiro di César Vallejo. In italiano esiste una traduzione molto difficile da trovare uscita presso Savelli. Questa è un primo saggio di una traduzozione che spero possa essere integrale.
genseki

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César Vallejo










Il Tungsteno


I





Quando, finalmente, l'impresa nordamericana “Mining Society” fu padrona delle miniere di Tungsteno di Quivilca, nel Cuzco, la direzione di Nuova York decise di far cominciare immediatamente l'estrazione del minerale.


Una valanga di braccianti e impiegati uscì da Colca e dai luoghi di transito, dirigendosi verso le miniere. A questa valanga ne seguì un'altra e poi un'altra ancora, tutte contrattate per la colonizzazione e per i lavori in miniera. Il fatto che non si trovasse nei paraggi e nelle province vicine ai giacimenti, e neppure a quindici leghe di distanza, la mano d'opera necessaria, obbligava l'impresa a far venire da villaggi remoti e assettamenti rurali, gruppi numerosi di indios destinati al lavoro in miniera.




Il denaro cominciò a correre rapidamente e in abbondanza come mai si era visto a Colca, capitale della provincia in cui si trovavano le miniere. Le transazioni commerciali raggiungevano proporzioni inaudite. Da tutte le parti, nelle osterie e nei mercati, per strada e sulle piazze si osservavano persone che discutevano di acquisti e di affari. Molte proprietà urbano e rurali passavano di mano, e vi era un'animazione costante presso i notai e nei tribunali. I dollari della “Mining Society” avevano comunicato alla vita della provincia, prima tanto quieta, un movimento inabituale.





Tutti sembravano essere in viaggio. Persino il modo di camminare, prima lento e incurante si fece rapido e impaziente. Passavano gli uomini vestiti di cachi … pantaloni per cavalcare, con una voce che aveva anch'essa cambiato timbro, parlavano di dollari, documenti, assegni, marche da bollo, minute, cancellazioni, tonnellate, utensili. Le ragazze dei sobborghi uscivano per vederli passare, e un dolce brivido le scuoteva quando pensavano ai minerali lontani, il cui esotico fascino le attraeva irresistibilmente.





Sorridevano e arrossivano mentre chiedevano:


- Signore, va a Quivilca?


- Si. Domattina molto presto


- Che fortuna! Andate tutti ad arricchirvi in miniera!


Così cominciavano quegli amori che poi dovevano annidare sotto le volte oscure delle vetas favolose.




Con i primi gruppi di braccianti e minatori giunsero a Quivilca gli amministratori, i direttori e gli alti impiegati dell'impresa: Tra di loro vi erano in primo luogo i Signori Taik e Weiss direttore e vicedirettore della “Mining Society”; il cassiere della società, Javier Machuca; l'ingegnere Peruviano José Marino, che aveva ottenuto la concessione in esclusiva del bazar e del caporalato per la “Mining Society”, il comissario degli impianti Baldazari e l'agronomo leonida Benites, aiutante di Rubio, questi portava con sé la moglie e due bambini piccoli. Marino portava un nipotino che picchiava ogni tanto, tutti gli altri erano soli.





Il luogo dove si stabilirono era una falda desolata del versante orientale delle Ande, rivolto alla regione dei boschi. Quivi incontrarono come solo segno di vita umana una capannuccia di indigeni, i Soras. Questa circostanza che permetteva loro di servirsi degli indios come guide nella regione solitaria e sconociuta, unita al fatto che nella topografia del luogo fosse quello il punto centrale dell'azione della compagnia mineraria, fece si che le basi del villaggio minerario furono gettate proprio intorno alla capanna dei Soras.





Per poter stabilire un ritmo di vita e di lavoro normale in quelle pune si dovettero dispiegare grandi e rischiosi sforzi.





L'assenza di vie di comunicazione con i villaggi civilizzati con i quali quel sito era unito solo da un sentieri scoscesi costituì, all'inizio, una difficoltà quasi insuperabile.





Varie volte si dovette sospendere il lavoro per mancanza di utensili e non poche per fame e malattia della gente sottoposta ad un clima glaciale e implacabile.





I sora, presso i quali i minatori trovarono sempre conforto e una ingenua e allegra mansuetudine svolsero un ruolo la cui importanza crebbe tanto che in più di una occasione l'impresa sarebbe fallita senza il loro opportuno intervento. Quando finivano i viveri e non ne arrivavano altri da Colca, i sora cedevano il proprio grano, il bestiame, utensili e servizi personali, seza tariffa, senza stare a pensarci e sopratutto senza fatsi pagare. Si accontentavano di vivere in amicizia e disinteressata armonia con in minatori che i sora osservavano con una sorta di curiosità infentile mentre si davano un gran da fare giorno e notti in un viavai continuo di macchine misteriose e fantastiche. Da parte sua la “Mining Society” non ebbe bisogno del lavoro dei sora nelle miniere per via della mano d'opera che aveva fatto venire da Colca e lasciava tranquilli i sora, da questo punto di vista, fino, almeno, a quando le miniere avessero reclamato più lavoro e più uomini. Sarebbe mai giunto quel giorno? Al momento i sora continuavano a vivere senza essere coinvolti nel lavoro in miniera.


- Perché fai sempre così? - Chiese un sora ad un operaio che aveva il compito di ungere le gru.

- É per sollevare …
- E perché lo sollevi?
- Per lucidare la vena e liberare il metallo
- Che ci fai con il metallo?
- A te non piace avere dei soldi brutto selvaggio?

Il sora vide che l'operaio sorrideva e anche lui si mise a sorridere automaticamente. Lo seguì osservandolo tutto il santo giorno e moli altri giorni per vedere come finiva quella storia di ungere le gru. Un altro giorno, il sora tornó a chiedere all'operaio, sulle cui tempie scorreva il sudore:

- Ce l'hai già il denaro
- Che cos'è il denaro?

L'operaio rispose con fare paterno facendo risuonare le tasche della sua blusa:

- Questo è denaro. Vedi? È denaro. Lo senti?...




Disse l'operaio e tiró fuori alcuni nichelini. Il sora li vide come qualcuno che proprio non riesce a capire:


- Che ci fai con 'sto denaro?

- Ci compro quello che voglio. Va! Che sei una bella bestia!

E giù a ridere, l'operaio. Il sora se ne andò fischiettando e saltellando.

In un'altra circostanza, un altro sora, che contemplava apertamente e come stregato un operaio che martellava sull'incudine della Forgia, si mise a ridere con una allegria sana e burlona. Il fabbro disse:

- Di che ridi, cholito? Vuoi lavorare con me?
- Si. Voglio farlo anch'io.
- No. Non lo sai fare, dai! È difficile.

Ma il Sora si intestardì che voleva lavorare alla forgia. Alla fine lo accettarono e il Sora lavorò con i fabbri quattro giorni filati, e giunse ad aiutare davvero i meccanici. Il quinto giorno, a mezzogiorno, il Sora, di colpo, mise d parte le sue barre e se ne andò

- Ehi! - Gli dissero – Perché te ne vai? Continua a lavorare.
- No – disse il Sora – Non mi piace più
- Ma ti pagheranno. Ti pagheranno per il tuo lavoro. Dai continua a lavorare.

- No, non ne ho più voglia.


Trad. genseki

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