sabato, dicembre 26, 2009

L'uomo approssimativo

Tristan Tzara

Frammento “L'Uomo approssimativo” 1931

Domenica grave coperchio al ribollire del sangue
Ebdomadario peso accoccolato sui suoi muscoli
Caduto al'interno di se stesso ritrovato
Le campane suonano senza ragione e noi pure
Suonate suonate campane senza ragione e pure noi
Noi ci rallegreremo al rumore delle catene
Che faremo suonare in noi con le campane

Che linguaggio è questo che ci scudiscia sussultiamo nella luce
I nostri nervi sono fruste tra le mani del tempo
E viene il dubbio con una sola ala incolore
Che si avvita si comprime si schiaccia in noi
Come la carta stropicciata del pacco aperto
Regalo d'un'altra epoca dagli scivolamenti dei pesci di amarezza

Suonano le campane senza ragione e noi pure
Gli occhi dei frutti ci guardano con attenzione
E tutte le nostre azioni sono controllate nulla è celato
L'acqua del fiume ha tanto a lungo lavato il suo letto
Porta con sé i dolci fili degli sguardi che hanno bighellonato
Ai piedi dei muri nei caffé leccato vite
Allettato i deboli connettato sensazioni disseccato estasi
Approfondito fino in fondo antiche varianti
Aperto il varco alle fonti delle lacrime prigioniere
Le sorgenti atte ai quotidiani soffocamenti
Gli sguardi che prendono con mani secche
Il chiaro prodotto del giorno o l'apparizione in ombra
Che concede l'attenta ricchezza del sorriso
Avvitato come un fiore all'occhiello del mattino
Coloro che pretendono riposo o voluttá
Tocchi di vibrazioni elettriche soprassalti
Avventure fuoco di certezza o schiavitú
Sguardi che hanno strisciato lungo discreti tormenti
Consumato i selciatii delle cittá e espiato molte meschinitá con elemosine
Si susseguono strette attorno ai nastri d'acqua
E scorrono ai mari trascinando al loro passaggio
Sporcizia umana con i suoi miraggi

L'acqua del fiume ha lavato cosí a lungo il suo letto
Che persino la luce striscia sull'onda liscia
E cade al fondo con grave bagliore di pietre

Senza ragione suonano le campane e noi pure
Le preoccupazioni che portiamo con noi
Che sono i nostri abiti interiori
Che indossiamo ogni mattina
Che la notte scioglie con mani di sogno
Ornati d'inutile rebus metallici
Purificati nel bagno dei paesaggi circolari
Nelle cittá preparate per la carneficina il sacrificio
Presso i mari che spazzano le prospettive
Sulle montagne severamente inquiete
Nei paesini dai dolorosi abbandoni
La mano pesante sulla testa
Suonano le campane senza ragione e pure noi
Partiamo in partenza e arriviamo in arrivo
Partiamo con chi arriva e arriviamo con chi parte
Senza ragione un po' duri un po' secchi severi
Pane cibo manca il pane che accompagna
La canzone saporita alla gamma della lingua
I colori depositano il loro peso e pensano
E pensano o gridano e restano e si nutrono
Di frutti leggeri come il fumo planano
Ce pensa al calore che tesse la parola
Attorno al suo nucleo sogno che ci chiama

Suonano le campane senza ragione e pure noi
Marciamo per sfuggire dalle strade formicolanti
Con un flacone di paesaggi una sola una sola malattia
Che coltiviamo fino alla morte
So che io porto in me la melodia e non ho paura
Porto la morte e se muoio è la morte
Che mi porterá nelle sue braccia impercettibili
Fini e leggere come odore d'erbe magre
Fini e leggere come partenze senza scopo
Senza amarezza debiti rimpianto senza
Suonano senza scopo le campane e pure noi
Perché cercare il capo della catena che ci lega alla catena
Campane suonate senza scopo e pure noi
In noi suoneremo vetri rotti
Monete d'argento e false monete
Schegge di feste scoppiate a ridere in tempesta
Alle cui porte si aprirebbero abissi
Tombe di vento mulini che frantimano le osa dell'artico
Feste che ce elevano le teste al cielo
E sputano sui nostri muscoli la notte di piombo fuso

Io parlo di chi parlo e sono solo
Non sono che un piccolo rumore con piccoli rumori in me
Un rumore gelato stropicciato all'incrocio gettato sul marciapiede umido
Ai piedi di quelli che vanno di fretta corrono con i morti attorno alla morte che stende le
braccia
Sul quadrante della sola ora vivente sotto il sole

Spesso si fa il soffio oscuro della notte
E nelle vene cantano flauti marini
Trasposti sulle ottave degl strati di diverse esistenze
Le vite si ripetono all'infinito fino ala magrezza atomica
E in alto cosí in alto che non possiamo vedere con queste vite accanto che non vediamo
L'ultravioletto di tante vie parallele
Che avremmo potuto imboccare
Sule quali avremmo potuto non entrare nel mondo
O averlo abbandonato da così tanto tempo
Che sarebbe dimenticata l'epoca della terra che ci succhió la carneficina
Sali e metalli liquidi limpidi al fondo dei pozzi

Penso al calore che tinge la parola
Attorno al nucleo del sogno che ci chiama.

Trad genseki

2 commenti:

Olivier Favier ha detto...

L'ultimo verso è il sogno che si chiama noi, invece del sogno che ci chiama -il quale sarebbe stato le rêve qui nous appelle e non le rêve qui s'appelle nous. Comunque grazie di questa bella, difficile traduzione, la quale mi ha permesso di fare scoprire Tzara agli amici italiani.

Pietro Cadelli ha detto...

Si ho forzato il testo. Cosa che mi capita di fare perché cerco di identificarmi con il testo di renderlo mimetico e di farlo piuttosto che di servirlo. Adesso non ricordo bene cosa pensassi mentre traducevo ma credo che questa voce del sogno mi abbia comunque finito per sedurre.
Grazie della visita e della segnalazione.
genseki