mercoledì, ottobre 28, 2009

Incontri precoci con la poesia di Dreiser Cazzaniga

Quando si sforza di ricordare Dreiser Cazzaniga si inoltra in una macchia mediterranea atrocemente spinosa, si sente come durante un'escursione in Gallura, coi pantaloni corti. Si riposa guardando con una certa sodisfazione le piaghe che decorano i suoi polpacci mentali. Non perde occcasione per ricordarsi che i suoi polpacci fisici, quelli si, sono un prestito che sta per scadere e non si puó riavere dalla sopresa della certezza che sono destinati a restare piantati nella terra come gli steli dei carciofi in Ottobre o quelle canne che sostennero i filari dei piselli, piantati così, inutili, fino alla polvere. Comunque ricorda. Ricorda i suoi incontri precoci con la poesia. Il primo libro lo lesse nel dicembre del 67, forse era il 26. Il libro era il gatto con gli stivali, non erano versi. Il ricordo stenta ad avviarsi. I primi versi, invece, gli udì, forse alla radio, ed erano di Juan Ramón Jimenez e parlavano delle felci rosse nell'autunno, dell'anima e forse di una noria, o la noria era di Machado, va a sapere. Quando ricorda questi versi Dreiser Cazzaniga è proiettato sulla strada campestre che passava al lato della scuola, una lieta stradina bianca ad una svolta della quale si scorgeva appena un po' sotto il borgo odoroso e fumante. C'era una festa, nel borgo, durante la quale le viuzze, le crose e i vichi erano pavesati con fronde fresche di castagno.
Comunque quei versi se li ripeteva, bambino, durante tutte le passeggiate autunnali con il suo papá. Poi venne l'infinito di Leopardi, ossessivamente rivissuto sdraiato nell'erba marcia di novembre osservando tra la nebbia il mare lontanissimo o il cielo di ardesia. Venne poi Quasimodo: quel figlio crocifisso al palo del telegrafo gli provvocava una dolcezza torbida per essere così sonoramente amato da una madre. Anche lui avrebbe voluto essere crocifisso a un palo del telegrafo per godere di una simile manifestazione di affetto. La madre di Dreiser Cazzaniga apparirá in altri ricordi e probailmente in questi rappresenta una oscura minaccia fortunosamente disinnescata. La voce di Ungaretti quella sì, era come un torrente recitando: "M'illumino di immenso" con tutte le consonanti della parola mamma così lattosamente suzionate. Che invidia! La poesia gli si faceva latte e mamma e gli apriva una possibilità di attesa.

genseki

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